di Edgar R. Burroughs - pagine 128 - euro 0,52 - Gruppo Newton
Il valoroso capitano John Carter dalla Virginia del selvaggio West si ritrova misteriosamente catapultato su Marte. Qui, da tempi memorabili, le varie tribù aliene che abitano il Pianeta Rosso combattono un'eterna lotta tra di loro, in un'era sospesa tra tecnologia e pseudo medioevo. Dopo mille avventure John Carter si innamora di Dejah Thoris, la principessa di un popolo che sta per essere sopraffatto dalla tirannia di altri marziani.
Carter, con ogni mezzo, tenterà di riportare l'ordine su Marte. Con quest'opera Edgar R. Burroughs ha dato vita al "science fantasy", genere letterario che mescola l'avventura con il fantasy futuristico. Gradevole da leggere ma niente di più. Voto: 6,5
Incipit
Nel presentarvi in forma di libro lo strano manoscritto del Capitano Carter, credo che
alcune parole sulla sua eccezionale personalità possano risultare di qualche interesse.
Il mio ricordo del Capitano Carter risale all'epoca in cui per alcuni mesi fu ospite della
casa di mio padre in Virginia, poco prima che scoppiasse la Guerra di Secessione. Ero un
bambino di cinque anni, allora, ma ricordo perfettamente quell'uomo alto, atletico, il
volto liscio e la pelle scura, che io chiamavo Zio Jack.
Sembrava sempre che ridesse, e giocava con noi bambini con lo stesso spirito con cui si
accostava ai divertimenti cui si dedicavano uomini e donne della sua età; oppure se ne
stava seduto per ore e ore a divertire la mia vecchia nonna raccontandole episodi della
sua vita avventurosa in tutte le parti del mondo. Gli volevamo tutti un gran bene, e i
nostri schiavi sarebbero stati perfino disposti a baciare la terra su cui camminava.
Era un gran bell'uomo, alto più di un metro e ottantacinque, le spalle ampie e i fianchi
sottili, e aveva il portamento di chi è abituato a combattere. I suoi lineamenti erano
regolari e marcati, i suoi capelli erano neri e tagliati corti, e i suoi occhi grigio
acciaio riflettevano un carattere forte e leale, pieno di fuoco e d'iniziativa. I suoi
modi erano raffinati, e la sua etichetta era quella di un gentiluomo del Sud della classe
più elevata.
La sua abilità nell'equitazione, specialmente durante la caccia, era una continua fonte
di stupore e di ammirazione perfino in quel paese di magnifici cavalieri. Ho spesso udito
mio padre metterlo in guardia contro il suo sprezzo del pericolo, ma lui scoppiava a
ridere: il cavallo dalla cui groppa sarebbe caduto, uccidendosi, non era ancora nato.
Quando scoppiò la guerra, ci lasciò, e io non lo vidi più per quindici o sedici anni.
Quando ritornò, non inviò alcun messaggio per preavvisarci, ed io fui molto sorpreso nel
constatare come, visibilmente, non fosse invecchiato di un solo istante, e fosse rimaso,
esternamente, quello di prima. Quando si trovava insieme agli altri, era lo stesso ma,
quando credeva di essere solo, lo vidi più volte stare seduto per ore e ore a fissare il
vuoto, il volto impietrito, lo sguardo pieno d'ansia, di desiderio e di disperata
sofferenza; durante la notte sedeva così, gli occhi rivolti al cielo, pensando a qualcosa
che non seppi finchè non lessi il suo manoscritto, molti anni dopo.
Ci disse di aver compiuto delle ricerche minerarie in Arizona, qualche tempo dopo la
guerra: e aveva senz'altro avuto fortuna, come comprovava l'illimitata quantità di denaro
di cui disponeva. Ma era assai reticente sui dettagli della sua vita in quegli anni: in
realtà, non ci disse mai nulla.