di Stefano Fantelli - euro 9,00 - 86 pagine - Mobydick Editore
Se cercate un libro che vi dia delle emozioni forti e che vi stupisca fin dalla prima pagina dovete assolutamente leggere "Alla fine della notte", breve antologia composta da 5 racconti scritta dall'autore bolognese Stefano Fantelli. Filo conduttore del libro è la spietata ironia con cui vengono descritte le vicende dei protagonisti, personaggi cinici, violenti, crudeli, a loro modo romantici e vittime loro stessi di strane avventure, a volte condite da un tocco di mistero.
"El Brujo" è un pittoresco ragazzo ossessionato dalle fate; in "Alla fine della notte", racconto che dà il titolo all'antologia, uno scrittore di successo entra suo malgrado in un mortale gioco di spionaggio; i protagonisti di "Arte da macellaio" sono due ragazzi allucinati dalla TV e dalla pubblicità; "La valigia sul letto" è un misterioso oggetto in attesa di essere consegnato; "Xxx" è la strampalata storia d'amore tra un vip e una persona comune. In conclusione "Alla fine della notte" è un gran libro semplicemente per due motivi: la brillante narrazione di Stefano Fantelli e le storie stesse dell'antologia... originali, spiazzanti e troppo divertenti per non essere lette! Voto: 9
Incipit (dal racconto "El Brujo")
Nel 1988 vivevo da solo a Bologna, in una soffitta. Avevo sedici anni e ancora
nessuna colpa addosso (o quasi). Dimostravo qualche anno di più, forse perchè ero sempre
incazzato. Ascoltavo sempre Fearless, in quel periodo, il primo e ultimo disco
degli Eight Wonder, uscito in quell'anno. In cuffia, la voce anestetica di Patsy Kensit mi
stordiva e mi accompagnava fino alle porte del sogno. La prima canzone del lato B, I'm
not scare, era scritta dai Pet Shop Boys (e si sentiva).
I miei genitori gestivano un albergo in provincia di Modena, ma non gli andava tanto bene
e io ero indietro di due anni con gli studi e di due mesi con l'affitto. Qualche fine
settimana lo passavo da loro, ma col tempo sempre più di rado. Ormai Bologna era entrata
in me e io in lei. E lei mi stringeva e mi tirava a sè con le sue grasse cosce. Mi
mantenevo lavorando in nero nei bar, ma i soldi non bastavano mai. A settembre sarei
tornato a scuola, un'altra scuola uguale a tutte le altre, dove avrei ricominciato dalla
prima superiore, ma senza essere mai stato bocciato. Soltanto, mi ero preso una pausa di
riflessione. Tutti dovrebbero fermarsi, ogni tanto, prendersi un anno sabbatico, guardare
la luna come se fosse l'ultima. Purtroppo era inevitabile: dovevo proprio diplomarmi se
volevo arrivare all'università.
I soldi se ne andavano in libri e riviste, pessimo cibo e birra scadente, ma soprattutto
li spendevo per il Pejote, il cactus allucinogeno che contiene il principio attivo della
mescalina. Me lo procuravano i ragazzi messicani che stavano al piano di sotto e che
riuscivano a farsene spedire piccole quantità dalla loro terra natia. Questo mi era valso
il soprannome di El Brujo, lo stregone, perchè erano convinti che usassi il
Pejote per compiere riti magici e mettermi in contatto con gli dei. Questa storia aveva
fatto il giro del quartiere e tutti ormai mi chiamavano così. Brujo. Ma io volevo solo
spalancare le porte della percezione per scrivere di più e meglio. Volevo far cadere il
velo, scrutare oltre e riscoprire l'anima che da due millenni circa si era fatta muta o
perlmeno aveva cessato la sua funzione di guida.
Non ero un tossico, ero un pioniere, il nuovo Hemingway, il nuovo cazzuto Joyce.