The wailing

Titolo originale: Goksung
Regia: Na Hong-jin
Cast: Kwak Do-won, Kunimura Jun, Hwang Jung-min, Chun Woo-hee, Kim Hwan-hee, Jang So-yeon
Produzione: Corea del Sud
Anno: 2016
Durata: 156 minuti

Trama

Il villaggio rurale di Goksung è sconvolto da un'ondata di efferrati omicidi, per i quali non si trova alcuna spiegazione razionale. Il sergente Jeon Jong-gu, in seguito ad esami tossicologici effettuati sui colpevoli, si persuade che il fenomeno potrebbe essere dovuto a un'intossicazione da funghi velenosi, ma quando la figlia Hyo-jin mostra inequivocabili segni di possessione egli si risolve a chiedere l'aiuto di uno sciamano.

RECENSIONE

Dopo due pietre miliari quali "The Chaser" (2008) e "The Yellow Sea" (2010), Na Hong-jin coglie ancora nel segno con un'opera che scompagina i generi con una potenza visiva raramente eguagliata nel cinema coreano contemporaneo. "The Wailing", presentato a Cannes fuori concorso, è in parte thriller investigativo e in parte horror tout-court, ma elide entrambi i generi ponendosi come una poderosa riflessione sull'immanenza del male, che sarebbe riduttivo incasellare in qualsivoglia categoria. In accordo con la sua visione pessimistica, Na Hong-jin nega recisamente il potere salvifico della religione, sia essa il cristianesimo professato dal diacono Yang Yi-sam o lo sciamanesimo di Il-gwang, entrambi impotenti dinanzi al male, anzi suscettibili di essere utilizzati come complici o inconsapevoli pedine per portarne a termine i disegni. I due possono solo essere testimoni muti, tenere la conta delle vittime o aggiungersi alla loro inesauribile schiera.
Ma "The Wailing" è anche un capolavoro di depistaggio dello spettatore, suscettibile di differenti e contrastanti interpretazioni. Grazie a una struttura labirintica e assieme di diabolica (è il caso di dirlo) esattezza, frutto di un intenso anno di editing, il nostro punto di vista viene a coincidere con quello dello sventurato protagonista, il quale non è in grado di discernere il bene dal male e di spezzare la maledizione che attanaglia Goksung. Jong-gu è al centro di un triangolo formato da tre personaggi, tutti supremamente ambigui e dalle incerte motivazioni. La sibillina ed esangue fanciulla che cerca di attrarre la sua attenzione, è lo spirito protettore di Goksung o il malevolo fantasma additato da Il-gwang? L'ineffabile giapponese di mezza età che abita in una baracca tra i boschi è uno "yamabushi", un monaco eremita votato alla magia nera, oppure è stato posseduto suo malgrado da uno spirito malvagio? Il "paksu" (sciamano) Il-gwang è un adepto del medesimo culto del giapponese e collabora con lui per appropriarsi delle anime degli abitanti del villaggio, o è stato semplicemente ingannato da una forza più grande di lui? L'assoluta mancanza di punti fermi ci precipita in un vortice di dubbi dal quale è difficile emergere, invitandoci ad abbandonarci alla maestosa andatura del film, il quale s'incammina con lentezza per poi fluire come un fiume in piena che tutto travolge, verso l'ineluttabile conclusione.

Il male si propaga come un'infezione sessualmente trasmessa, come appare palese dallo stupro ai danni della donna sulla riva del fiume e dalla violenza subita da Hyo-jin, evidente dai disegni scarabocchiati sul suo diario, per poi aggredire visibilmente il corpo dell'ospite e renderlo pronto ad ospitare l'agente infestante, che lo condurrà alla follia omicida lasciandosi indietro un guscio svuotato. Na Hong-jin, il quale si professa in parte cristiano, in parte ateo e in parte buddhista, attinge alla tradizione evangelica sia nell'inquadratura iniziale, nella quale rovescia l'immagine del Cristo "pescatore di uomini", che qui diventa un demone in procinto di gettare l'esca per vedere chi abboccherà all'amo, che nella terribile conclusione, in una sequenza più onirica che reale, dove si scende in una caverna fiocamente illuminata che corrisponde agli abissi dell'inconscio. L'entità demoniaca che la abita, si fa beffe dell'inutile fede del diacono Yi-sam rivolgendosi a lui con le parole di Cristo dopo la resurrezione, citate nel Vangelo di Luca: "Perché siete turbati e sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi. Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho."
Allo stesso tempo il regista non dimentica che le radici culturali dello sciamanesimo sono assai radicate in Corea, dove tutt'ora esercitano molte "mudang" e qualche "paksu", e mette in scena un "kut" (rituale sciamanico) fedelmente ricostruito, nel quale i suonatori sono effettivamente coloro che partecipano a questo genere di cerimonie. La sequenza del "kut" effettuato per liberare Hyo-jin dalla possessione, in montaggio alternato con un analogo rituale compiuto dal misterioso giapponese, è forse una delle più potenti del film, assieme alla conclusione. Ma Na Hong-jin non si affida solo al dramma per tessere la sua vischiosa ragnatela, e non tralascia l'aspetto comico-grottesco della vicenda, e basti pensare all'apparizione notturna della donna al di fuori della stazione di polizia o alla convulsa sequenza del morto vivente. L'orrore infatti non esclude il grottesco, ma se ne nutre golosamente.
Girato prevalentemente d'inverno in luce naturale, sia per catturare la desolata bellezza dei panorami naturali che per restituirne l'estraneità rispetto al consorzio umano, dando corpo agli innumerevoli spiriti che li abitano, "The Wailing" aggredisce la retina con immagini di baracche fatiscenti di estremo squallore, invase da fango e sporcizia, dove il male trova terreno fertile. La fotografia di Hong Kyung-pyo e le scenografie di Lee Hwo-kyung si rivelano infatti essenziali per la riuscita del film, così come una cast assai indovinato dove primeggia Kwak Do-won (The Attorney, The Shameless), che oscilla come un pendolo dal comico al drammatico, con comprimari all'altezza, da Chun Woo-hee (Han Gong Ju, The Piper) al veterano Kunimura Jun, fino a Hwang Jung-min, che gioca con sottigliezza sulla sua consueta immagine di eroe positivo.
In mano ad altri questa parossistica serie di omicidi, possessioni e morti viventi sarebbe stata facile preda del ridicolo involontario (vedi "The Priests" di Jang Jae-hyun), ma in questo caso avrete invece voglia di rivedere il film più volte, per dipanarne l'inestricabile matassa.
Voto: 7,5
(Nicola Picchi)