Spiders 3D

Regia: Tibor Takacs
Cast: Christa Campbell, Patrick Muldoon, William Hope, Shelly Varod, Jon Mack, Sydney Sweeney, Zlateto Keremedchieva, Sarah Brown, Christian Contreras
Produzione: USA
Anno: 2013
Durata: 89 minuti

RECENSIONE

Il destino di Tibor Takacs è un po’ come quello del satellite russo di “Spiders 3D”. Lanciato in orbita negli anni ’80 con “Non aprite quel cancello” (1987) e “Sola in quella casa” (1989), si è schiantato sulla terra dopo quasi trent’anni, inquinando l’ambiente con detriti molesti. Pallido mestierante i cui film sono al di là di qualsiasi volenteroso recupero, Takacs è rimasto ancorato a un’idea (si fa per dire) di cinema morta e sepolta. L’uscita nelle sale solleva inoltre i consueti, oziosi interrogativi sulle scelte deliranti dei distributori italiani.

Perché distribuire un titolo che meglio sarebbe stato lasciare confinato nel limbo degli straight-to-video? Si suppone forse che l’idea di assistere alle evoluzioni di ragni giganti, con contorno di stereoscopia posticcia, attiri nei cinema folle plaudenti? Troppe domande per un solo film, tutte destinate a restare senza risposta. Vista la sgangherata approssimazione della messa in scena non è neanche lecito appellarsi all’effetto-nostalgia, escamotage sempre a portata di mano per elargire benevole assoluzioni.
Dopo averci afflitto con mocciosi che spalancano improvvidamente le porte dell’Inferno e alchimisti sfigurati, Takacs questa volta si accanisce contro un classico sottogenere della fantascienza anni ’50, il cui capostipite (“Tarantola” di Jack Arnold) rimane a tutt’oggi imbattuto in quanto a tensione e secchezza narrativa. Tra le successive apparizioni sul grande schermo dei beneamati aracnidi, si rammentano invece l’”Aracnofobia” (1990) di Frank Marshall e il recente “Big Ass Spider!” (2013) di Mike Mendez, memorabile se non altro per il titolo.
Il regista gira come se fossimo ancora negli anni ’80, probabilmente riesumando una sceneggiatura lasciata a prendere polvere in qualche cassetto. Un satellite russo lanciato ai bei tempi dell’URSS, quando Takacs era ancora relativamente lucido, si schianta nella metropolitana di New York (ma siamo in Bulgaria...). Dai rottami fuoriescono piccoli aracnidi, i quali iniziano a deporre le uova nei corpi delle loro malcapitate vittime, operai della manutenzione e senzatetto. Le autorità, le quali ufficialmente sospettano la presenza di un virus, delimitano il quartiere interessato affidando all’esercito la gestione dell’emergenza. Ma in realtà, complice uno scienziato russo scongelato per l’occasione, i militari attendono con trepidazione la nascita della Regina, la quale è in grado di produrre una ragnatela indistruttibile, composta di un materiale “alieno” il cui possesso fa gola al governo americano. Il protagonista del film dovrà portare in salvo moglie e figlia, le quali si trovano nella zona incriminata, barcamenandosi tra militari sull’orlo di una crisi di nervi e ragni malmostosi, i quali nel frattempo sono cresciuti di dimensione come in ogni “monster-movie” che si rispetti e scorrazzano allegramente sulle facciate dei palazzi.
La solfa usuale, nella quale il protagonista deve ricostituire l’integrità del gruppo familiare di fronte a un’aggressione esterna, genera 89 minuti di tedio estremo conditi da dialoghi avvilenti. Takacs si dimostra incapace di creare tensione, grazie anche ad attori che recitano al minimo sindacale e a effetti ben poco “speciali”, e non è neanche in grado di buttarla sul demenziale salvando capra e cavoli. La Shelob di Peter Jackson può dormire sonni tranquilli: l’apparizione della Regina di Tibor Takacs, infatti, affossa definitivamente un film indifendibile sotto qualsiasi punto di vista, raggiungendo inaspettate vette di ridicolo. Persino le cialtronate prodotte dalla Asylum paragonate a “Spiders 3D” spiccano come capolavori di inventiva e autoironia, e se una multisala non si nega a nessuno, non si comprende perché un film assai più spassoso come “Sharknado” non sia stato preso in considerazione. Augurandosi che gli spettatori non cadano nella trappola, si suggerisce a regista e a distributori di indossare un cilicio onde espiare il peccato commesso, quello del disprezzo verso il pubblico.
Voto: 4
(Nicola Picchi)