Tales from the dark

Regia: Simon Yam, Lee Ching-ngai, Fruit Chan, Gordon Chan, Lawrence Lau, Teddy Robin
Cast: Simon Yam, Tony Leung Ka-fai, Kelly Chen, Cherry Ngan, Susan Shaw, Dada Chan, Fala Chen, Gordon Lam, Chan Fat-kuk, Sham Ka-ki, Teddy Robin, Aliza Mo
Produzione: Hong Kong
Anno: 2013
Durata: 199 minuti

RECENSIONE

Tratti da due raccolte di racconti di Lilian Lee, la storica sceneggiatrice di classici quali “Addio mia concubina” di Chen Kaige e “Rouge” di Stanley Kwan, i sei episodi di “Tales from the Dark” vedono impegnati sei autori della vecchia guardia, tra cui spiccano Gordon Chan, il “desaparecido” Fruit Chan e persino Simon Yam al suo esordio nella regia. La scelta va decisamente in controtendenza rispetto alla consuetudine di utilizzare gli omnibus come palestra per giovani registi, che hanno modo di farsi le ossa prima di passare a progetti più impegnativi.

E’ anche il segnale più evidente di come si intenda guidare guardando nello specchietto retrovisore, omaggiando con affetto il cinema hongkonghese degli anni ’80 e ’90, com’è recentemente avvenuto nel “Rigor Mortis” di Juno Mak.
Le sei storie proposte attingono a tematiche profondamente radicate nella cultura e nel folklore cinese, dalla coesistenza quotidiana tra il mondo degli umani e quello degli spiriti, fino ai riti funerari e alle tecniche di divinazione, senza dimenticare i procedimenti da seguire per lanciare maledizioni. Del resto i racconti di Lilian Lee non sono che la riproposizione in chiave contemporanea di argomenti classici della novellistica cinese, dalle raccolte secentesche di Feng Menglong ai più noti “Racconti fantastici dello Studio di Liao” (1766) di Pu Songling. Gli spettri di “Tales from the Dark”, insomma, affondano saldamente unghie e denti in una tradizione secolare ben consolidata, e questo è parte integrante della loro forza, quello che gli permette di sfuggire provvisoriamente al Di Yu, l’inferno cinese, per continuare a camminare sulla terra.
Naturalmente non tutti gli episodi sono dello stesso livello, com’è lecito aspettarsi in un omnibus. L’ultimo della classe si dimostra Lawrence Lau con il trasandato “Hide and Seek”, in cui un gruppo di adolescenti ritorna nella vecchia scuola in via di demolizione, L’edificio è infestato, come nella migliore tradizione del cinema di Hong Kong, e mettersi a giocare a nascondino con i fantasmi non si rivelerà un’idea luminosa. L’episodio di Lau, forse per eccessiva compenetrazione con l’argomento trattato, è già un “revenant” di per sé, lo spettro di un VHS smagnetizzato degli anni ’80 che meglio sarebbe stato consegnare all’oblio.
Andiamo decisamente meglio con “A Word in the Palm” di Lee Ching-ngai, ex collaboratore di Peter Chan, nel quale Ho Ho, un indovino che possiede il dono di vedere i fantasmi e pratica la divinazione, decide di ritirarsi dalla professione. Il proposito verrà bruscamente rimandato quando nel suo studio si presenterà Chen Siu-ting, una ragazza che si è tolta la vita, per farsi leggere la mano. Lee mantiene un tono agrodolce, giostrando sottilmente tra horror, dramma e commedia, consegnandoci una malinconica riflessione sul trascorrere del tempo e sul nulla che è destinato a inghiottire tutte le cose, amore compreso. L’episodio può inoltre contare sulla classe consumata di Tony Leung Ka-fai (Ho Ho) e Kelly Chen (Lan), entrambi di invidiabile levità.
I quattro episodi rimanenti sono di ottimo livello, ognuno a suo modo. In “Black Umbrella”, diretto e interpretato da uno scatenato Terry Robin, il vecchio Lau prende un autobus per Mongkok, e durante il tragitto trova il modo di sventare prima una rapina e poi un’aggressione. Lau è gentile, ironico, accomodante, ma siamo pur sempre nella quindicesima notte del settimo mese, in pieno Ghost Festival, e la sua indole da buon samaritano è solo un modo per tenere a bada la sua vera natura, destinata a emergere dopo l’incontro casuale con una prostituta. In “Black Umbrella”, la Hong Kong notturna è una città infestata, un caleidoscopio di luci al neon (splendida fotografia di Jason Kwan), vicoli maleodoranti, androni da cui si affacciano anime perdute in attesa di reincarnarsi, mentre lungo le strade si apprestano le offerte cerimoniali e si brucia il denaro per i defunti. Uno scenario in cui la coesistenza tra uomini e spiriti è tangibile, in cui Terry Robin si aggira in cerca di buone azioni da compiere, come uno Charlot uscito dall’inferno.
“The Pillow” di Gordon Chan indaga invece un tema classico della cultura cinese, quello dell’amore tra un umano e un fantasma. Non siamo però nel “Padiglione delle Peonie”, e Chan lo declina nei termini di un’ossessione erotica prossima al vampirismo sessuale. Ching-yi, abbandonata dal fidanzato, inizia a soffrire di insonnia. Acquista allora un miracoloso cuscino, che dovrebbe favorire il sonno. Insieme al sonno, arriva però anche un amante, appassionato e instancabile, che gradualmente la prosciuga di ogni energia. Felpato, sinuoso e sensuale anche nei movimenti della macchina da presa, immerso nel biancore allucinato della veglia forzata, di cui il sonno è il luminoso riflesso speculare, “The Pillow” è um’elegante variazione sul tema del vampirismo, erotico come l’ultimo sorriso di Ching-yi, abbracciata al suo cuscino magico.
Sorprende positivamente anche l’esordio alla regia di Simon Yam, che in “Stolen Goods” interpreta Kwan Fu-keung, un operaio che vive in condizioni di estrema precarietà, il quale sottrae dal cimitero le urne dei defunti per chiedere un riscatto ai parenti. La regia si fa mimetica con il delirio del monologante protagonista, la macchina da presa si identifica con lo sguardo del fantasma, anzi, dei molti fantasmi che premono alla porta del suo squallido monolocale, perché essere povero e “invisibile” equivale a essere uno spettro in vita. Il montaggio frammentato, gli effetti sonori disturbanti di Kawai Kenji e la fotografia “haunted” del solito Jason Kwan, completano uno degli episodi migliori del film.
Fruit Chan, di cui si erano perse le tracce dai tempi di “Dumplings” (2004), torna alla regia con “Jing Zhe”. Il titolo, il “risveglio degli insetti”, indica l’inizio della primavera, giorno in cui gli indovini affollano Canal Road. La vecchia Chu pratica una vecchia usanza risalente alla dinastia Tang, che consiste nel percuotere con una scarpa un disegno che simboleggia la persona che si vuole maledire. L’ultima cliente della serata, purtroppo per lei, sarà il fantasma di una donna in cerca di vendetta. L’episodio ha un taglio documentaristico, pulsa del chiassoso caos di strade e persone, si appropria della città sublimandola in chiave fantasmatica, mantenendo però le radici saldamente ancorate nella realtà, e si aggiudica un “ex aequo” con “Stolen Goods”.
Presentato fuori concorso al Festival di Roma, “Tales from the Dark” è uscito nelle sale di Hong Kong in due parti, a due mesi di distanza l’una dall’altra.
Voto: 7
(Nicola Picchi)