Regia: Ole Bornedal
  Cast: Jeffrey Dean Morgan, Kyra Sedgwick, Madison Davenport, Natasha 
        Calis, Grant Show, Matisyahu
        Produzione: USA
        Anno: 2012
      Durata: 92 minuti
L’allenatore di basket Clyde Brenek, in via di separazione dalla moglie Stephanie, cerca di abituarsi alla sua nuova vita da single. Durante un week-end trascorso in compagnia delle figlie, Emily, la minore, acquista una scatola di legno a un mercatino dell’usato. La ragazzina si dimostra sempre più ossessionata dal misterioso oggetto, mentre cominciano a verificarsi avvenimenti inspiegabili.
 La ragione che ha spinto Sam Raimi a reclutare un abile regista come Ole 
  Bornedal per poi affidargli uno dei sottoprodotti della sua Ghost House, 
  che a tutt’oggi ne ha azzeccate davvero poche (a parte “30 giorni di 
  buio”), rimane un enigma. A meno che non si tratti della solita 
  tendenza americana a sfruttare un regista affermato (e i nomi sono 
  infiniti) coinvolgendolo in progetti che ne snaturano la vocazione, 
  normalizzandone la poetica a uso e consumo delle platee statunitensi. Sam Raimi non è nuovo a tali iniziative, e aveva già colpito chiamando 
  Takashi Shimizu per il superfluo remake di “The Grudge” e i fratelli 
  Pang per “The Messengers”. Ma almeno si trattava di registi già a 
  proprio agio con il genere horror, cosa che non si può certo dire di 
  Bornedal, senza contare che assegnare al regista danese la direzione di 
  un horror della Ghost House è un po’ come convocare Winding Refn per poi 
  offrirgli la regia di un episodio di “CSI”, ovvero uno spreco di 
  talento.
  “The Possession” lucra sull’improvvisa rinascita del filone esorcistico, 
  la cui recente infornata di titoli (“L’altra faccia del diavolo”, “Il 
  rito”, “L’ultimo esorcismo”) si arrestava nettamente al di sotto della 
  soglia della sufficienza, con qualche punto in più strappato a stento 
  dal film di Daniel Stamm. La tipologia dell’Avversario era conforme alla 
  dottrina cattolica, com’è sempre stato da “L’Esorcista” in poi, ma 
  questa volta Raimi e gli sceneggiatori Juliet Snowden e Stiles White 
  prendono spunto da una vicenda realmente accaduta (la vendita su eBay di 
  una misteriosa scatola), richiamandosi alla mistica ebraica e alla 
  figura del dibbuk, già goffamente utilizzata da David S. Goyer ne “Il 
  mai nato” (2007). Tutto questo resta sulla carta, dato che non c’è 
  bisogno di essere Gershom Scholem per sapere che il dibbuk è l’anima di 
  una persona deceduta la quale, condannata a vagare sulla terra a causa 
  di peccati pregressi senza poter accedere all’aldilà, possiede il corpo 
  di un vivente. Gli sceneggiatori ritengono però di ignorare la 
  tradizione, e il loro dibbuk non differisce poi di gran lunga da un 
  qualsiasi diavolo della demonologia cristiana, invalidando la presunta 
  ingegnosità del plot. L’incidenza di questo riferimento alla mitologia 
  ebraica nell’economia della narrazione è infatti prossima allo zero, e, 
  a parte la carismatica apparizione del musicista Matisyahu nelle vesti 
  del figlio di un rabbino chassidico, potremmo benissimo trovarci alla 
  presenza di un demone sumero alla “Ghostbusters”. L’anima erratica 
  diventa un generico spirito maligno animato da pessime intenzioni, con 
  tanti saluti alla Kabbalah e all’ebraismo.
  Il Male si insinua, come d’abitudine, in una famiglia in crisi, in cui 
  le due bambine devono sopportare il pesante stress psicologico derivante 
  dal divorzio dei genitori. Quando Emily scoperchia il vaso di Pandora, 
  il malmostoso dibbuk prende possesso del suo corpo, e la bambina inizia 
  ad assumere comportamenti violenti. Come si vede, la sceneggiatura è 
  convenzionale ed è arduo costruire con tali premesse una suspense degna 
  di questo nome, anche se Bornedal s’impegna per evitare il déja-vu. 
  Impresa complicata, visto che non si va oltre un generico schema di 
  possessione/esorcismo, con contorno di famigliola che, sottoposta a una 
  feroce aggressione esterna, si ricompatta ritrovando l’unità perduta. E 
  allora si ricorre a espedienti ormai consolidati, peculiari al filone 
  esorcistico, quali l’infestazione di insetti, i movimenti disarticolati 
  e le pupille rovesciate della bambina posseduta, la voce profonda e 
  gutturale del demone, il quale, forse per ebraica morigeratezza, si 
  astiene dall’abbandonarsi al memorabile turpiloquio di Linda Blair nel 
  film capostipite.
  A onore del regista bisogna dire che si evitano quei cincischiosi 
  mezzucci, come il mockumentary o il found footage, che oggi vanno per la 
  maggiore, “refugium peccatorum” di svogliati mestieranti che meglio 
  farebbero a dedicarsi a più proficue occupazioni. Il glaciale 
  iperrealismo di Bornedal valorizza al massimo una sceneggiatura 
  risaputa, sia nell’articolare con sottigliezza le dinamiche familiari 
  dei Brenek che nella costruzione dei momenti horror, assestando anche 
  qualche zampata ad effetto (il contrappasso “odontoiatrico”). Tuttavia 
  nè la competenza della regia, né la buona prova degli interpreti Jeffrey 
  Dean Morgan (il Comico di “Watchmen”) e Kyra Sedgwick riescono a elevare 
  “The Possession” dalla mediocrità.
  Per apprezzare in pieno Ole Bornedal, si consiglia di recuperare i 
  crudelissimi “Deliver Us From Evil” e “Just Another Love Story” o magari 
  l’eccentrico “Io sono Dina”, uscito miracolosamente anche dalle nostre 
  parti, mentre per quanto concerne il dibbuk avevano già detto tutto i 
  Coen nel bellissimo prologo di “A Serious Man”. Provaci ancora, Sam.
  Voto: 5,5
  (Nicola Picchi)