La leggenda del cacciatore di vampiri

Titolo originale: Abraham Lincoln: Vampire Hunter
Regia: Timur Bekmambetov
Cast: Benjamin Walker, Dominic Cooper, Rufus Sewell, Anthony Mackie, Mary Elizabeth Winstead, Marton Csokas, Jimmi Simpson, Joseph Mawle, Robin McLeavy
Produzione: USA
Anno: 2012
Durata: 105 minuti

TRAMA

Un giovane Abramo Lincoln assiste alla morte della madre, uccisa da un vampiro. Nove anni dopo decide di vendicarla affrontando il suo aggressore, il mercante di schiavi Jack Barts. Nello scontro Lincoln sta per soccombere, ma viene provvidenzialmente tratto in salvo da Henry Sturgess, il quale diventerà il suo mentore e lo addestrerà all’arduo compito di eliminare i vampiri.

RECENSIONE

La moda del mash-up letterario (che una volta si sarebbe definito “pastiche”) inaugurato da Seth Grahame-Smith con “Orgoglio e Pregiudizio e zombie”, ha generato diverse imitazioni apocrife, quali “Mr. Darcy, vampyre” o “Sense and Sensibility and Sea Monsters”, il cui denominatore comune è l’improvvido accanimento sui romanzi di Jane Austen, che i lettori anglosassoni conoscono a menadito; persino dalle nostri parti qualcuno ha pensato bene di inserirsi a buon titolo nel neonato filone con una versione vampiresca de “I promessi sposi”, stante l’obiettiva scarsità di classici dell’800 italiano suscettibili a prestarsi a questo tipo di rivisitazione. Visto che l’annunciato film tratto dal romanzo d’esordio di Grahame-Smith sembra essere in perenne stand-by, il nostro si è cimentato con risultati discutibili nella sceneggiatura di “Dark Shadows” e nel romanzo “Abraham Lincoln: Vampire Hunter”, che è diventato un film prodotto da Tim Burton e diretto da Timur Bekmambetov, talentuoso regista kazako risucchiato da una Hollywood sempre avida di sangue fresco. La filosofia alla base dell’operazione è sempre la medesima, sia che si tratti di letteratura che di cinema: si prende un classico letterario o un personaggio storico universalmente noto, e lo si immerge in un mondo alternativo arricchito da elementi sovrannaturali e mostri di vario genere, siano essi zombie, vampiri o affini. L’ozioso trastullo, sia pure elementare, è in grado di assicurarsi la divertita complicità del lettore e/o spettatore, a patto di riuscire a ottenere un’accettabile coerenza narrativa. Quella coesione che latita ampiamente ne “La leggenda del cacciatore di vampiri” (Lincoln veleno al botteghino?), in cui il côté storico, ovvero l’abolizionismo e la guerra di Secessione, e quello finzionale, ovvero la piaga del vampirismo, scorrono su due binari paralleli che non si incontrano mai.
Nottetempo il giovane Lincoln, squattrinato commesso di bottega, decapita vampiri come un forsennato con la sua ascia placcata d’argento. Durante il giorno, con studio matto e disperatissimo di leopardiana memoria, s’impegna con tutte le sue forze per diventare avvocato, trovando anche il tempo per fidanzarsi con una fanciulla di buona famiglia. Sull’orlo della mezza età, decide di abbandonare la caccia ai vampiri, hobby alquanto adolescenziale, per dedicarsi esclusivamente alla carriera politica. Lo scoppio della guerra provoca però la reazione di Adam, il progenitore dei vampiri americani, il quale possiede una piantagione a New Orleans (Anne Rice docet) ed è tanto conservatore quanto può esserlo un succhiasangue millenario. La schiavitù è difatti una vera e propria manna dal cielo per i vampiri, che si trovano a disposizione del bestiame umano a buon mercato. Per preservare lo status quo, Adam decide di stringere un’alleanza con le forze confederate, che stanno per capitolare davanti alla potenza militare ed economica del Nord, scatenando un’armata di non morti durante la battaglia di Gettysburg, la più sanguinosa carneficina della guerra civile americana. Utilizzare il vampirismo quale metafora dello schiavismo, sottolineandone la sostanziale equivalenza, funziona esclusivamente in via teorica dato che storia e mito s’incontrano solo tangenzialmente e in maniera pretestuosa, complice una sceneggiatura facile all’inceppamento, piena di buchi, snodi narrativi imbarazzanti e dialoghi al limite dello sconforto. L’accoppiamento tra il biopic celebrativo del sedicesimo presidente degli Stati Uniti e il mito del vampiro genera un figlio deforme, e Grahame-Smith si comporta come la madre di un celebre racconto di Maupassant, la quale si deformava il ventre con dei corsetti troppo stretti, per partorire un figlio mostruoso da esibire a pagamento nei circhi itineranti.
Anche la verve di Bekmambetov sembra segnare il passo. Se del dittico tratto da Luk’janenko e di “Wanted” si apprezzava la ribalda improntitudine testosteronica, qui il regista sembra procedere con il pilota automatico, firmando la sua opera peggiore. Forse contagiato dalla temibile “sindrome di Paul W. S. Anderson”, abusa fino alla nausea di slow-motion alla “Matrix” che oramai dovrebbero essere proibiti per legge. Alla trentesima decapitazione in bullet time, con copiosa effusione di fluidi nerastri, anche lo spettatore ben disposto comincia ad avvertire una certa saturazione, che si tramuta rapidamente in noia ed esasperazione. Anche il caos possiede una sua logica, ma questa volta la corroborante anarchia visiva, sia di regia che di montaggio, di “Day Watch” e “Night Watch”, è sostituita da sequenze sconclusionate e ipertrofiche (dall’insensato inseguimento a cavallo tra Lincoln e Barts al risibile finale sul treno in corsa), zavorrate da prevaricanti effetti CGI, che si alternano alla paludata retorica che affligge il versante strettamente “realistico” della vicenda.
Benjamin Walker (The Flags of Our Fathers), somigliante a un giovane Liam Neeson, non sarà il Lincoln di Henry Fonda in “Alba di gloria”, ma se la cava discretamente, mentre il solitamente brillante Dominic Cooper (The Devil’s Double) si adatta a fare il Robert Downey Jr. dei poveri. Per la cronaca, pur di anticipare il blasonato concorrente, negli Stati Uniti era già stato distribuito con largo anticipo un “Abraham Lincoln vs. Zombies”, di incerta paternità.
Voto: 5,5
(Nicola Picchi)