Regia: Gary Ross
  Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Woody 
        Harrelson, Elizabeth Banks, Lenny Kravitz, Stanley Tucci, Donald 
        Sutherland
        Produzione: USA
        Anno: 2012
      Durata: 142 minuti
Panem è uno stato totalitario nato dalle ceneri degli Stati Uniti, che esige annualmente un “Tributo” dai 12 Distretti che un tempo si ribellarono al potere centrale. In ogni Distretto vengono estratti a sorte un ragazzo e una ragazza, destinati a combattere negli “Hunger Games”, trasmessi in diretta televisiva. Quando nel Distretto 12 viene sorteggiata la giovanissima Primrose Everdeen, sua sorella Katniss si offre volontaria per sostituirla. Dopo un breve periodo di allenamento a Capitol City, che ha anche la funzione di presentare alle platee televisive i vari concorrenti, i 24 prescelti si affronteranno in uno scontro all’ultimo sangue, in cui può esserci un solo vincitore.
 Innumerevoli sono i predecessori di “Hunger Games”, tratto dal primo 
  libro della fortunata trilogia di Suzanne Collins, a partire dai 
  pionieristici “Rollerball” (1975) e “Anno 2000: la corsa della morte” 
  (1975), i quali immaginavano, con piglio satirico, società totalitarie 
  in cui si ricorreva ai ludi gladiatorii in funzione di oppiaceo di 
  massa. In seguito venne “L’uomo in fuga” (1982) di Richard Bachman 
  (alias Stephen King) e il relativo film “L’Implacabile” (1987), che 
  agganciava con bella intuizione questa tematica al consumo passivo della 
  violenza, esperita dall’inebetito spettatore mediante la fruizione 
  televisiva. E questo, si noti bene, assai prima che esistessero i 
  reality show. Altro tassello essenziale nel furioso riciclaggio operato 
  dall’autrice americana è naturalmente il survival “Battle Royale” (1999) 
  di Koushun Takami (e il conseguente film di Fukasaku), crudele mattanza 
  di scolaretti su un’isola deserta, nonchè, in misura minore, “Contenders 
  – Serie 7” (2001), nerissimo reality che recuperava suggestioni della 
  fantascienza sociologica di Robert Sheckley.
  “Hunger Games” è dunque distopia di riporto, e sarebbe arduo 
  rintracciarvi un’idea originale anche esaminandolo al microscopio. La 
  medesima cosa si può affermare della sua trasposizione cinematografica, 
  ma considerando che spesso il cinema coltiva una vocazione cannibalesca 
  nutrendosi di altro cinema, non si può negare che il film di Gary Ross 
  possegga una sua coerenza derivativa, anche se risulta lampante 
  l’intenzione di farne il primo episodio di una trilogia che possa 
  sostituire “Twilight” nel cuore dei teen-ager di tutto il mondo. Essendo 
  un film rivolto a un pubblico di adolescenti, ne consegue che la 
  violenza sia assai edulcorata e spesso fuori campo, allo scopo di 
  evitare divieti che vadano (in America) oltre il PG-13.
  E’ naturale che uno stato chiamato Panem sia prodigo di “circenses”, 
  onde affermare la propria supremazia politica e tener sedate le masse 
  lavoratrici, relegate in condizioni di estrema indigenza nei 12 
  Distretti. Il Distretto di minatori da cui proviene Katniss Everdeen, 
  provetta amazzone esperta nel tiro con l’arco, sembra infatti immerso 
  negli anni della Grande Depressione. Scenografie, tipologie dei volti e 
  abbigliamenti evocano con intelligenza l’America di John Steinbeck, 
  immortalata splendidamente nel “Furore” di John Ford, o le fotografie 
  d’epoca di Walker Evans. All’opposto, la sfarzosa Capitol City è 
  l’apoteosi della decadente opulenza delle classi dominanti. Il rimando 
  visivo più immediato è questa volta alle architetture parafasciste degli 
  anni ‘30, e al “Brazil” (1985) di Terry Gillian per l’eccentricità dei 
  costumi e delle acconciature. Spazio intermedio tra queste due realtà 
  inconciliabili, opposte anche cromaticamente, è l’arena, all’interno 
  della quale si affronteranno i “Tributi”. Uno spazio naturale, sia pure 
  manipolabile a volontà da Seneca, architetto dei Giochi, che richiama la 
  mitologia tutta americana della “wilderness”. Della natura selvaggia e 
  incontaminata, che può essere fonte di pericolo ma anche di ritorno 
  all’innocenza primigenia, lontana dalle limitazioni delle norme sociali. 
  In questo senso il personaggio di Katniss Everdeen, eroina armata (non a 
  caso) di arco e frecce, resuscita un archetipo fondativo della cultura 
  americana, il mito della frontiera. Tale matrice culturale esiste però a 
  priori, implicitamente, senza che nessuno avverta la necessità di 
  evocarla in maniera consapevole.
  “Hunger Games” lascia poco spazio alla satira, limitandosi a 
  parallelismi, anche ovvi, con il mondo contemporaneo. Si accontenta di 
  constatare lo stato delle cose a beneficio di generazioni cresciute con 
  reality alla “American Idol”, che aspirano ai proverbiali 15 minuti di 
  celebrità. Il mentore Haymitch (un gigionesco Woody Harrelson) 
  raccomanda a Katniss e a Peeta Mellark, il secondo “Tributo” del 
  Distretto 12, di accattivarsi le simpatie del pubblico e degli sponsor, 
  magari simulando una storia d’amore che possa commuovere le platee. Lo 
  stilista Cinna (un carismatico Lenny Kravitz) studia per la coppia un 
  look che possa impressionare gli spettatori, il presentatore Caesar 
  Flickerman (un istrionico Stanley Tucci) simula incoraggiamento, 
  entusiasmo e apprensione per la sorte dei concorrenti, mentre il 
  Presidente Snow (un luciferino Donald Sutherland) manovra gli eventi 
  dietro le quinte, assicurandosi che i dannati della terra restino tali.
  Gary Ross è regista dalla personalità non eccelsa, che finora aveva 
  firmato solamente il didascalico e “grazioso” “Pleasantville” (1998) e 
  l’ennesima versione di “Seabiscuit”, di cui nessuno avvertiva la 
  mancanza. In questo caso smussa i pochi angoli presenti nel romanzo, 
  senza mai riuscire a comunicare una sensazione di vero pericolo per la 
  sorte di Katniss. Malgrado questo, indovina qualche finezza (Primrose 
  che si aggiusta il vestito) e almeno una sequenza riuscita, quella che 
  segna l’inizio dei Giochi. Quando i concorrenti devono impossessarsi 
  delle armi custodite nella Cornucopia, Ross risolve tutto con camera a 
  mano, restringimenti di campo e montaggio frammentato, facendoci intuire 
  la violenza senza rappresentarla esplicitamente. Un momento di grande 
  impatto, che però non si ripeterà.
  Jennifer Lawrence, che era parsa una rivelazione nel bel “Winter’s Bone” 
  di Debra Granik, continua a mirare agli scoiattoli ma appare smarrita e 
  opaca, malgrado il costante corteggiamento della macchina da presa. 
  Pollice verso anche per Josh Hutcherson (Peeta), tedioso innamorato 
  pronto all’estremo sacrificio. Per la cronaca, Steven Soderbergh ha 
  diretto le scene della rivolta al Distretto 11, dopo la morte di Rue.
  Voto: 6,5
  (Nicola Picchi)