Regia: Zack Snyder
Cast: Emily Browning, Abbie Cornish, Jena Malone, Vanessa Hudgens,
Jamie Chung, Carla Gugino, Oscar Isaac, Scott Glenn
Produzione: USA
Anno: 2011
Durata: 105 minuti
Nell’America degli anni ’60, la giovane Babydoll viene rinchiusa dal perfido patrigno in un ospedale psichiatrico nel Vermont. In attesa di subire una lobotomia, progetta un piano di fuga coinvolgendo altre quattro ragazze, Sweet Pea, Rocket, Amber e Blondie.
Zack Snyder possiede un talento essenzialmente visivo ed è, da questo
punto di vista, il più creativo tra i registi del cinema americano
contemporaneo. In “300”, novello Leni Riefensthal in salsa peplum,
fondeva il taglio grafico delle tavole di Frank Miller con la pittura
pompier di un Bouguereau, rasoiata da una cascata di effetti digitali ai
limiti del kitsch, mentre i dylaniani titoli di testa di “Watchmen”
rimangono tuttora memorabili. Quest’ultimo film, il primo nato da un
soggetto originale del regista, è uno zibaldone che assorbe e rigenera
tutte le suggestioni della cultura pop contemporanea, in primis il
movimento del “Pop Surrealism” di artisti quali Mark Ryden e Marion Peck,
nato dal coacervo di sottoculture dell’underground americano, e di cui
“Sucker Punch” può essere considerato un po’ l’equivalente
cinematografico. Ed è solo l’inizio, perché tra i materiali riversati in
questa ribollente fucina non mancano le guerriere nipponiche alla Sasori,
innumerevoli illustratori fantasy d’oltreoceano, suggestioni
videoludiche, gli anime giapponesi e persino il glorioso “Mètal Hurlant”
di Druillet e Moebius. Un distillato di estrema complessità che sfugge
alle maglie del cinema ottuso che ad Hollywood va per la maggiore,
riuscendo ad essere molto personale pur nell’eterogeneità delle fonti.
“Sucker Punch” è una favola dark, e delle favole conserva l’architettura
e le convenzioni. Babydoll deve superare una serie di prove iniziatiche
recuperando cinque, importantissimi oggetti il cui utilizzo le
restituirà la libertà: una mappa, un coltello, una chiave, un accendino
e un quinto elemento non specificato. Secondo quanto teorizzato da Propp,
la ragazza è coadiuvata da un “aiutante magico”, che si incarna di volta
in volta in monaco zen, pilota di caccia, soldato e persino conducente
di autobus. Questa figura, che rappresenta anche un “padre” buono
contrapposto al patrigno malvagio, le fornisce indicazioni preziose per
completare le sue quest, che si svolgono in mondi alternativi. Altre
realtà che Babydoll costruisce con il potere della sua fantasia per
evadere dall’angosciante realtà del manicomio. La prima, figura
speculare della casa di cura, è un bordello d’alto bordo, gestito da
Blue (nella realtà, un infermiere) e Madame Gorski (una psichiatra),
dove le ragazze attendono l’arrivo del misterioso e temuto High Roller.
Da qui si avventurano in altri universi, ognuno con le proprie
pecularità, attingendo ad un immaginario fecondato dalla cultura pop.
L’onirico non si configura secondo i dettami dell’inconscio, ma secondo
quelli della cultura di massa. Quattro set differenti, uno ogni oggetto,
e quattro generi diversi da scardinare. Un tempio buddista, in cui
Babydoll affronterà dei mostruosi samurai bronzei, le tempeste d’acciaio
della I Guerra Mondiale in versione steampunk, con tanto di zeppellin,
soldati zombie e Mech stile “Yattaman”, un castello assediato da orchi e
goblin, con un drago da far invidia allo Smaug di Tolkien, e un lontano
pianeta, dove le ragazze guerriere dovranno battersi contro un’orda di
cyborg. Naturalmente ogni oggetto assume forme differenti da quelle
reali, e così l’accendino diventerà fuoco di drago, il coltello un
ordigno da disinnescare e così via. La fotografia di Larry Fong,
collaboratore abituale del regista, utilizza toni lividi e freddi per il
manicomio, caldi e ambrati per il fantasy, seppiati per le trincee della
I Guerra Mondiale, esaltando ogni mondo con una diversa palette
cromatica. L’incipit, sulle note di una melanconica versione di “Sweet
Dreams”, è indicativo dell’utilizzo aggressivo della colonna sonora.
Ogni quest è infatti accompagnata da un differente brano musicale, da
Bjork a Iggy Pop, le cui note definiscono il ritmo del montaggio, e
questo senza rischiare il vituperato effetto videoclip. Alcune
raffinatezze, come le piante dei vari edifici che riproducono quella
della casa di cura, o la storia incisa sulla lama del wakizashi di
Babydoll passano francamente inosservate nel marasma generale, ma sono
indice di apprezzabile ossessività. Molto efficace Emily Browning nelle
vesti di Babydoll, mentre il comparto tecnico, ovviamente di prim’ordine,
comprende le suggestive scenografie di Rick Carter (Avatar), i
riuscitissimi effetti visivi di John Desjardin (Matrix) e gli elaborati
costumi di Michael Wilkinson, che utilizzano con originalità elementi di
epoche diverse.
Ma chi è davvero il narratore di questa storia? Allo spettatore il
compito di assaporare il colpo di coda finale, avvisando che la morale
della favola è ben poca cosa. Quello che conta è che siamo autorizzati a
leggere la figura di Babydoll come una metafora dell’artista, e quindi
dello stesso Snyder, demiurgo di mondi fantastici creati con il potere
dell’immaginazione.
Voto: 7
(Nicola Picchi)