I saw the Devil

Titolo originale: Akma-leul Bo-ass-da
Regia: Kim Jee-woon
Cast: Choi Min-sik, Lee Byung-hun, Oh San-ha, Chun Kook-haun, Chun Ho-jin, Kim Yoon-seo
Produzione: Corea
Anno: 2010
Durata: 141 minuti

TRAMA

Tutto quello che sa Kyung-chul, autista di scuolabus part-time, è che gli piace stuprare, torturare e uccidere giovani donne. Quello che non sa, è che la sua ultima vittima era la fidanzata di Soo-hyun, agente speciale del National Intelligence Service, il quale giura di vendicarsi facendolo soffrire oltre ogni limite.

RECENSIONE

Dopo la black comedy, l’horror, il noir e il western, Kim Jee-woon si misura con il thriller affrontandone una delle declinazioni più abusate: il film col serial killer. Fatte le debite proporzioni, si potrebbe accostare la disinvoltura con cui si avvicina a generi diversi, per poi trarne opere inconfondibili, a quella di Stanley Kubrick. Sovvertitore della nozione, in sé piuttosto rassicurante, di cinema di genere, ne estremizza regolarmente le convenzioni piegandole alle sue esigenze, che sono essenzialmente stilistiche. Spesso in Kim lo stile è il contenuto, ed il discorso è valido anche per la sanguinosa e truculenta mattanza di “I Saw the Devil”.
Dopo un prologo violentissimo, il film inizia con il ritrovamento in un campo di un orecchio mozzato, un po’ alla maniera di “Velluto Blu”. La polizia indaga, finchè non cominciano a saltar fuori altre parti del corpo, e non si arriva all’identificazione della vittima. Soo-hyun, presente al momento del ritrovamento del cadavere, dichiara ufficialmente di prendersi due settimane di vacanza, ma in realtà si dedica alla ricerca dell’assassino. Con l’aiuto del padre della fidanzata, capo della polizia in pensione, identifica una rosa di possibili sospetti e comincia a torchiarli. Al terzo tentativo si imbatte nel colpevole ma, invece di arrestarlo o ucciderlo, inizia con lui un gioco perverso. Gli fa ingoiare a sua insaputa un trasmettitore GPS e comincia a pedinarlo, sbucando fuori nei momenti più impensati per seviziarlo e riempirlo di botte, momenti che in genere coincidono con quelli in cui Kyung-chul si dedica al suo hobby preferito a spese di qualche malcapitata. Dal canto suo, Kyung-chul non ha idea di chi possa essere il suo implacabile persecutore, e Soo-hyun si culla nell’illusione di mantenere il controllo assoluto sugli avvenimenti. Inutile dire che non andrà esattamente così, e che la guerra all’ultimo sangue tra i due uomini lascerà sul terreno un numero elevato di vittime collaterali.
Anche senza scomodare la trilogia di Park Chan-wook, quella della vendetta è un tematica portante nel cinema coreano, e lo è anche nel caso di “I Saw the Devil”. Basta non attendersi da Kim Jee-woon ponderosi interrogativi morali sulla liceità o meno della medesima, sulla sua effettiva utilità o sui costi personali che si è costretti a pagare per perseguirla a tutti i costi. Quello che interessa al regista è portare il tema al parossismo, realizzando il film definitivo sull’argomento. E in effetti sarà difficile prescindere, da ora in poi, da questa esasperata escalation di violenza, inebriata del proprio dinamismo.
Evidentemente Soo-hyun non conosce la nota asserzione di Nietzsche, secondo cui “chi lotta contro i mostri deve guardarsi dal non diventare, così facendo, un mostro”. Se all’inizio il suo comportamento è quanto meno comprensibile, anche se non sempre giustificabile, via via che si alza il livello dello scontro, diventa sempre più ossessivo e maniacale. Soo-hyun lascia libero il mostro dentro di sé trasformandosi nello specchio del suo avversario, tanto che sia Kyung-chul che Soo-hyun potrebbero dire l’uno dell’altro: “I Saw the Devil”. E avrebbero entrambi ragione.
Questa sostanziale affinità conduce i due antagonisti verso un grado di malsana intimità, anche perché, in un universo in cui le donne sono ontologicamente relegate nel ruolo di vittime, l’unica possibilità di rapporto è quella, tutta al maschile, che si instaura tra cacciatore e preda.
Per alleviare due ore e venti di teste mozzate, tendini tranciati, mascelle disarticolate e colpi di chiave inglese sui genitali, ci arriva in soccorso lo stile sfavillante di Kim Jee-woon, il più brillante, almeno tecnicamente, tra i registi coreani in circolazione. Con teppistico savoir-faire, stempera questa sequela di atrocità nell’aceto dell’humour nero, inventandosi almeno una sequenza memorabile: un accoltellamento multiplo su un’automobile in corsa, risolto con un’inaspettata carrellata circolare. Tutto, persino la crudeltà, resta sommamente superficiale ma esteticamente inarrivabile, e se si può accusare il regista di estetizzare la violenza, non è forse quello che, alle volte, fa l’arte?
Potentissima prova di Choi Min-sik (“Old Boy”), al suo ritorno dopo un esilio autoimposto durato cinque anni, nel ruolo di Kyung-chul, personaggio di brutale carnalità che l’attore interpreta evitando sapientemente i clichè che si è soliti associare agli assassini seriali. Gli tiene testa con efficacia Lee Byung-hun, attore prediletto di Kim (“A Bittersweet Life”, “The Good, The Bad, The Weird”), che offre una performance totalmente implosa. Il film è stato tagliato dalla censura coreana, ma le scene mancanti sono state reintegrate nella versione internazionale.
Voto: 7
(Nicola Picchi)