Regia: Frabrice du Welz
Cast: Brigitte Lahaie, Gigi Coursigny, Jean-Luc Couchard, Jackie
Berroyer, Philippe Nahon, Philippe Grand'Henry, Jo Prestia, Marc
Lefebvre, Alfred David, Alain Delaunois, Vincent Cahay, Johan Meys
Soggetto e sceneggiatura: Fabrice Du Welz e Romain Protat
Fotografia: Benoit Debie
Montaggio: Sabine Hubeaux
Musiche: Vincent Cahay
Produzione: Belgio, Francia e Lussemburgo
Anno: 2004
Durata: 88 minuti
Manca poco a natale. Marc Stevens, un cantante sempre in giro per il Belgio ad esibirsi in ospizi e piccoli locali, è in viaggio per il suo spettacolo di natale, quando il furgone su cui viaggia e vive si ferma durante un temporale in mezzo ad un sentiero nella foresta. Un giovane, apparentemente un po' ritardato, che sta cercando il suo cane sotto la pioggia, accompagna Marc verso una locanda sperduta in mezzo al nulla. In questa locanda troverà ad accoglierlo Mr. Bartel, un uomo gioviale ed ospitale, che gli fornirà vitto e alloggio e l'assicurazione che il giorno seguente avrebbe provveduto a riparare il furgone guasto. Ma quegli occhi vedono davvero Marc Stevens? O solo lo spettro di un passato pieno di dolore?
Calvaire, diretto dal belga Fabrice Du Welz, (anche regista nel 2008 del
più mediocre horror Vinyan), è stato sicuramente il più evidente e
clamoroso sintomo di ciò che stava scoppiando in Francia, l'emergere di
quella che è stata ribattezzata la Nouvelle Vague della cinematografia
horror francese.
Calvaire è un piccolo film, cupo e sporco, i colori sono quasi sempre
smorzati: dominano il grigio ed il marrone dello sporco e della terra,
del sangue e degli escrementi. Quando i colori si accendono diventano
psichedelici, colori di una follia cieca e delirante.
E' un film che nasce lungo le squallide strade di una squallida
provincia belga, dove Marc Stevens canta in ospizi e piccoli locali, con
il suo seguito di fans ingrigite dalla vita di paese. Marc è uno che ha
fatto la sua piccola fortuna, vanitoso, un po' altezzoso, compiaciuto
del desiderio che tutte quelle donne riversano su di lui. Maschio, fiero
di esserlo e di ostentarlo. Presto la strada diventerà un fangoso
sentiero di montagna che risucchierà tutta la sua esistenza.
Sebbene l'inizio tenti di essere rassicurante, è percepibile la
sensazione di qualcosa di sbagliato in quell'ambiente, quei personaggi
che si sforzano di apparire normali celano, dietro una maschera
rappezzata, i sintomi di una follia che crescerà lentamente, come una
febbre debilitante. Il film è diretto in maniera impeccabile, senza
incertezze, senza incongruenze, senza esitazioni, è come se Du Welz
avesse davanti agli occhi il disegno globale della pellicola e si
limitasse a piazzare le tessere del mosaico una dopo l'altra senza mai
un ripensamento. Ma dietro alla perfezione tecnica c'è molto di più. Du
Welz ci accompagna in una morbosa, perversa e malata storia di abbandono
e solitudine, dove la paranoia rimane l'unico elemento femminile
presente nel film. Infatti la cosa straordinaria di Calvaire, il suo
punto davvero originale, è la mancanza dell'elemento femminile: non
troverete nessuna donna costretta a scappare e a combattere contro le
attenzioni morbose di qualche uomo, cosa che ormai appartiene al cliché
più classico di ogni film horror. In Calvaire l'uomo è vittima fra gli
uomini. L'elemento maschile viene umiliato, degradato, stuprato,
violentato, c'è una decostruzione psichica del maschio fino a ridurlo un
ibrido, pazzo, paranoico, proprio come coloro che lo hanno plasmato. La
vittima giocherà il ruolo di una marionetta, di una bambola, contesa fra
differenti uomini, privata di ogni dignità, di ogni volontà, della
stessa capacità di comunicare, poiché gli sarà impossibile comunicare
con i suoi carnefici, che sembrano esistere in un mondo differente, al
di là di un muro di pazzia.
Il calvario sarà quello di un uomo, che a differenza di Cristo non vedrà
solo umiliata e perduta la sua dignità di essere umano, ma anche quella
di maschio inteso come sessualità. Le torture sono appena accennate, non
è un film dove il sangue scorre, è un film dove il sangue ristagna scuro
e secco. Le vere torture sono quelle meno spettacolari, quelle a livello
psicologico, quelle che hanno poco di estetico e molto di crudele. Come
per Cristo il calvario sarà un cammino verso la redenzione, ma in
Calvaire la redenzione non ha niente di glorioso, è sporca e malata come
tutto il film. E' la caduta del muro di incomunicabilità fra il sano e
il folle, l'unione dei due mondi, la reciproca comprensione nella
dimensione della pazzia.
Mr. Bartel, patetica e triste figura di uomo devastato dal dolore e
dalla solitudine, ricorda per certi aspetti il mostro creato dal dottor
Frankenstein. E proprio come nella figura di Shelley sembra difficile
giudicare chi sia il vero mostro, dove risieda il bene e dove il male,
se in lui, afflitto misantropo perduto come un eremita fra i boschi, o
nella gente del villaggio con cui, fin da subito, appare chiaro esserci
un odio mai sopito, per fatti del passato che evidentemente solo alla
fine saranno svelati.
L'unica cosa a restare sospesa per tutta la durata del film è la
presenza/non presenza di questa donna, che pur muove i fili del gioco.
Voto: 10
(Diego Magionami)