Donkey punch

Regia: Oliver Blackburn
Cast: Robert Boulter, Sian Breckin, Tom Burke, Julian Morris, Jaime Winstone, Jay Taylor, Nichola Burley
Produzione: Gran Bretagna
Anno: 2008
Durata: 89 minuti

TRAMA

Tammi, Lisa e Kim, tre ragazze di Leeds in vacanza a Mallorca, incontrano in un locale tre ragazzi di Londra che le invitano a passare un week-end sul loro yacht, con l’intento neanche tanto velato di portarsele a letto. Arrivati in alto mare il gruppetto ci dà dentro con alcool, sesso e droghe varie finchè, durante l’improbabile pratica erotica che dà il titolo al film, una delle ragazze ci lascia la pelle. A questo punto l’ansia e la paranoia hanno il sopravvento, e ragazzi e ragazze si troveranno “l’un contro l’altro armati”.

RECENSIONE

Esiste il fondato sospetto che, se non fosse per il titolo alquanto pruriginoso, questo “Donkey punch” dell’esordiente Oliver Blackburn, regista di videoclip e spot pubblicitari, non se lo sarebbe filato nessuno. Eppure questo scontro all’ultimo sangue tra tre ragazze “working-class” e tre ragazzotti non molto svegli non è del tutto disprezzabile, e stacca di qualche lunghezza la marea montante degli imbecillissimi slasher americani che ammorbano gli scaffali delle videoteche. Non siamo certo dalle parti del “Coltello nell’acqua” e neanche da quelle di “Ore 10: calma piatta” del più modesto Philip Noyce, ma l’ambientazione claustrofobico-marinaresca è sfruttata a dovere, cercando di eludere le convenzioni del genere. Di suo, Blackburn ci mette una certa sgradevolezza priva di strizzatine d’occhio e uno sguardo sudaticcio per niente glamour, creando un’atmosfera disturbante, di quelle che restano attaccate alla pelle e inducono a correre a farsi una doccia. L’elementare connubio di sesso e violenza non è occasione per considerazioni illuminanti, ma è funzionale alla sceneggiatura, scritta dallo stesso regista con David Bloom. Va inoltre controcorrente rispetto all’attuale tendenza del “torture-porn”, dove il corpo è sviscerato (letteralmente) in tutti i suoi anfratti e il sesso rigorosamente bandito o vissuto solo per traslato, in una preoccupante ondata di neopuritanesimo di ritorno. Sarà per questo che “Donkey punch” riesce a destabilizzare lo spettatore, a partire dalle scene sulla barca girate nello stile di un porno amatoriale, che stravolgono le regole codificate dell’horror per adolescenti. Del resto è risaputo che l’hard e l’horror hanno molti punti in comune, e forse Blackburn avrebbe dovuto osare di più e abbandonarsi a qualche graffio hard-core per rendere il suo discorso più radicale.
Nella prima parte del film il regista dissemina qualche indizio, come la scena in cui Tammi si taglia con il rasoio mentre si depila le ascelle, e bisogna dire che, pur nell’assoluta e spiacevole vacuità dei protagonisti, vengono aggirati i soliti clichè del nutrito sottogenere “turisti in vacanza” (gli “Hostel”, “Turistas”, “Rovine” e un centinaio d’altri). Questa volta la violenza non arriva dall’esterno, ma è più realisticamente dentro di loro e, volendo essere pignoli, si possono addirittura evocare i fantasmi dello scontro tra i sessi. L’apparente armonia che regna all’interno del gruppo, agevolata dal miraggio dello sballo a tutti i costi, avrà infatti vita breve. Dopo la morte di una delle ragazze in seguito al famigerato quanto improbabile “Donkey punch”, un colpo assestato alla base del collo della donna durante l’atto sessuale che, si suppone, debba intensificare le sensazioni provate durante l’orgasmo, iniziano ad emergere le prime divisioni di campo e, se i dilemmi morali sollevati dai protagonisti lasciano il tempo che trovano, il progressivo innalzamento del body count appare strettamente conseguenziale e, per una volta, non stolida sottomissione alle dinamiche del genere, mentre la violenza è cruda e realistica, più spiacevole di qualsiasi iperbole splatter.
La buona interpretazione di tutti gli attori coinvolti, che rendono adeguatamente gli antipatici protagonisti, la soverchiante colonna sonora di Francois-Eudes Chanfrault e la suggestiva fotografia di Nanu Segal, fanno quasi dimenticare di trovarsi davanti a un prodotto low-budget. Tra l’altro, pensando che il film è stato finanziato con i fondi dell’U.K. Film Council si prova anche un po’ di salutare invidia. Immaginiamo un regista proporre un soggetto del genere in Italia, dove siamo anestetizzati dalle melasse paratelevisive e dai santini della produzione media, e rabbrividiamo.
"Donkey punch", insieme ai più riusciti "The disappeared" di Johnny Kevorkian (girato con un piglio alla Shane Meadows) e al più tradizionale "Eden lake", conferma il buono stato di salute del cinema inglese, o almeno di quello che si è avuto modo di apprezzare al Ravenna Nightmare di quest'anno.
Voto: 6
(Nicola Picchi)