Mortus est

Mortus est, mai pì a bôgia. E’ morto e non si muove mai più.
Mia nonna me lo ripeteva sempre quando, seduto sul divano con lei, guardavo un film di guerra e qualcuno nello scorrere della trama ci lasciava inevitabilmente le penne. Aveva qualcosa di particolare quella espressione, ma all’inizio neppure capivo che fosse un misto di latino e dialetto piemontese.
Fu sempre mia nonna a spiegarmi cosa significasse, ma io le dissi subito che si sbagliava. Lei negava e mutava espressione man mano che insistevo nel sottolinearle il suo errore.
I morti si muovevano eccome! E io li vedevo ogni notte.
Glielo dissi con tutta l’innocenza dei sette anni. La nonna credo non ne abbia mai parlato con mamma, perché quel giorno non accadde praticamente nulla. Nessuno venne a chiedere spiegazioni e non ci fu nessun strizzacervelli ad accogliermi in uno studio asettico. Anzi, continuai ad abitare nella stessa casa assieme ai miei, con la nonna che dormiva nell’alloggio al piano di sopra, dopo averci ceduto il suo appartamento divenuto per lei troppo impegnativo da mantenere.
La mia stanza era affacciata direttamente sul corridoio e dal letto potevo distintamente vedere l’enorme specchio ovale racchiuso da una cornice di bronzo che terminava con un intreccio floreale nella parte superiore. Lo usavano tutti quello specchio. Solo nonna non si fermava mai lì davanti. Mia mamma, prima di uscire, si specchiava per darsi una aggiustata al vestito o ai capelli; papà al mattino presto, quando usciva per andare a lavoro, non mancava mai una breve sosta per darsi l’ultimo tocco alla cravatta elegante. Lo usava anche la donna delle pulizie per cercare una bellezza sgualcita dal tempo.
E poi lo usavo io la sera. Per vedere passare i morti che si presentavano puntuali ogni notte.

Doveva trascorrere sempre più di un'ora dal momento in cui veniva chiusa la porta della stanza di mamma e papà. Io ero già coricato e avevo imparato a riconoscere tutti i rumori delle diverse porte della casa. Sapevo che al clac della serratura della loro camera iniziava il conto alla rovescia, così avevo soprannominato quell’attesa notturna. Allora scendevo dal letto e aprivo completamente la porta della stanza che di solito mia mamma lasciava solo accostata nel momento della buona notte. Poi tornavo rapidamente sotto le coperte.
Loro arrivavano muovendosi in colonna, lentamente.
Lo specchio mi faceva vedere tutto, riflettendo le sagome. Erano sempre in sei. Tre donne e tre uomini. Prima mi parevano solo ombre confuse, poi con il passare dei mesi le ombre avevano assunto sembianze umane e capii che erano morti. Avevano strani vestiti, di un colore indefinito tra il grigio e il marrone. Andò avanti tre anni. Ogni notte li aspettavo e loro passavano in silenzio lungo il corridoio.
Poi, uno di loro, quello che sembrava il più giovane, una notte si voltò. Lo sguardo era triste. Gli occhi, nonostante la pelle ormai ridotta a brandelli intorno al cranio, erano ancora al loro posto e continuarono a fissarmi ogni sera. Sembrava volermi chiedere qualcosa, ma come potevo parlarci se ogni volta si muovevano tutti insieme come se stessero uscendo da casa nostra?
La sera successiva mi alzai e decisi di andare ad aspettarli. Mi sedetti davanti alla porta della mia camera a gambe incrociate. Non mi facevano paura, anzi ormai erano quasi diventati parte della mia giornata, anche se nessuno di loro parlava mai. La colonna arrivò dopo poco.
Il giovane che si era voltato a guardarmi la sera prima mi tese la mano e facendomi avvicinare allo specchio.
Mi invitò a guardarci dentro e capii che la nonna era stata molto cattiva.
Era come guardare un film, un film di guerra. C’era uno strano grigiore nell’aria, o del fumo, non riuscivo a capire. Forse era appena finito un bombardamento. Li vedevo salire tutti insieme le scale per entrare rapidi in casa, nella nostra casa: le tre donne sembravano essere una mamma con le due figlie. Degli uomini, invece, uno era il ragazzo che mi aveva guardato e gli altri potevano essere uno suo padre e l’altro il nonno. Una famiglia intera, senza dubbio. Entrarono alla svelta e si diressero tutti verso il tinello. La porta di casa si chiuse alla loro spalle. Non capivo perché, ma ognuno di loro aveva una stella gialla cucita sui vestiti.
Continuai a guardare nello specchio. La scena successiva era l’irruzione di quelli che mi sembravano soldati, tutti vestiti di nero e la lenta colonna dei sei lungo il corridoio che ripassava davanti allo specchio verso cui tutti si voltarono per un’ultima volta. Poi mentre già stavano scendendo le scale, vidi un militare, col teschio sul berretto, salire su con mia nonna. Lei appariva molto giovane, ma i lineamenti erano inconfondibili. Di lui riconobbi la divisa: era un cattivo, un tedesco. Come quelli dei film di guerra. Si guardano. La spinge verso il muro e la bacia. Poi le consegna qualcosa. Un anello. Un anello d’oro con un piccolo rubino. Non ci potevo credere. Mia nonna che baciava un cattivo. Un tedesco. Uno di quelli che, come mi aveva sempre detto lei, avevano fatto cose brutte durante la guerra, tanti anni prima.
Quella sorta di visione terminò lì e i morti andarono via, come sempre.
Tornai in camera con le idee molto chiare.
Alle tre e mezzo del giorno dopo avevo già finito i compiti. Mia nonna arrivò puntuale per la merenda. Io la aspettai davanti allo specchio. Lei era sempre elegante e anche quel giorno aveva al dito l’anello d’oro con il piccolo rubino. La fermai lì.
Chi ti ha dato quell’anello, nonna?
Lei mi guardò in silenzio. Fece per andare avanti, ma io riuscii a bloccarla. Mi sentivo estremamente forte. Il suo sguardo, invece, stava mutando. Prima la paura poi la rabbia. Doveva aver capito. O forse li vedeva anche lei, adesso, i morti.
Perché hai baciato un cattivo, nonna?
Dove le hanno portate quelle persone? Le hai vendute tu ai tedeschi...
I tedeschi sono cattivi, cattivi, cattivi!

Glielo urlai guardandola negli occhi. Poi la spinsi a terra. La sua testa urtò con violenza contro lo specchio e i capelli bianchissimi e sempre ordinati si irrorarono di sangue. Si dimenava come poteva, ma io le saltai addosso. Continuai a sbattere la sua testa contro il vetro finché arrivò il silenzio. Mi girai. I morti si erano disposti a semicerchio attorno a me. Soddisfatti perché avevo reso loro giustizia.
A terra mia nonna, era immobile in un lago di sangue.
Decesso per trauma da caduta dovuto a crisi epilettica, così dissero.
Da quel giorno i morti non li vidi più.
Mortus est, mai pì a bôgia.

Steve Zanna