La cantina

Quando ho incontrato Gianna per la prima volta, promisi di amarla finché mi resi conto di non aver mai provato quel sentimento, quell’attrazione che porta un uomo a bramare ardentemente la propria donna. Gianna invece mi amava e tanto! Aveva investito ogni singolo giorno sul sottoscritto, aveva scommesso tutto il suo futuro, tutta la sua vita su un essere come me. Non riuscivo a confessare di non averla mai desiderata: non ne avevo il coraggio. Certo, un atteggiamento del genere è da codardo, da vigliacco; ma Gianna era il ritratto della bontà, la carnificazione del Bene e dichiararle la verità, dirle che per cinque anni avevo messo in scena un sentimento mai nato mi sembrava atroce: avrei visto Gianna disperarsi, piangere, dopo tutto quello che aveva passato in famiglia (padre violento, fratello alcolizzato, madre malata di cuore) non si meritava quest’altro scempio. Chi ero io per rovinarle la vita? Io, disoccupato, dipendente a trentacinque anni ancora dai genitori, scroccone, parassita, fannullone, ero amato da una donna che mi voleva con tutte le sue forze e che, fino allora, aveva fatto di tutto di più senza che io potessi ricambiare. Ma a lei non importava, a Gianna bastava che l’amassi ed io fingevo benissimo. Ero un pezzo di fango, la mattina mi guardavo allo specchio e mi facevo ribrezzo.
- Perché non glielo hai detto subito che non la volevi, bastardo! - con queste parole battezzavo le mie mattinate e le mie giornate perse nel baratro del nulla.
La mia vita, da quando avevo conosciuto Gianna, era diventata un inferno: ero sempre agitato, nervoso, avevo i brividi addosso, sudavo freddo ogni qualvolta la vedevo e mettevo in atto la parte del mezzo uomo. No, la mia vita non l’aveva rovinata Gianna: l’avevo rovinata io con le mie stesse mani perché non mi ero mai degnato di scegliere nella vita, mi sono sempre fatto trascinare dalla corrente senza che mi imponessi per cambiare direzione. Ero in balia di me stesso, della parte peggiore del mio Io: quell’Io rassegnato e indeciso che aveva avuto tutto dalla madre e che credeva che la vita avrebbe dovuto continuare a dargli qualsiasi cosa desiderasse senza muovere un dito.

Avevo perso il lavoro, ormai ero un vegetale che recitava la parte dell’innamorato. Iniziai a prendere un farmaco; inizialmente mi dava un certo benessere, mi staccava da me, dai miei casini e mi relegava in un’oasi di tranquillità, dove non mi avrebbe trovato nessuno. Caddi in una brutta dipendenza. Anni di Sert non erano serviti a nulla. Iniziai a odiare Gianna anche se, come al solito, continuavo a mostrarle la veridicità dei miei sentimenti; un giorno le chiesi addirittura di sposarla, perché solo lei costituiva la fonte della mia felicità. Ero impazzito del tutto, completamente fuori di me.
Gianna non sapeva della mia dipendenza. Recitavo in due vite diverse e, a quel punto, mi divenne difficile stabilire quale delle due fosse vera. Non riuscivo ad andare avanti in queste condizioni; avevo in mente di farla finita ma me la facevo addosso al solo pensiero. Mi aggrappavo, avidamente, alla sola speranza di non svegliarmi più. Dovrà pur succedere una volta! Ma questo desiderio è rimasto, come si vede, imprigionato nel mio cuore straziato. E allora, spinto dalla disperazione, pregavo che a Gianna succedesse qualcosa affinché uscisse dalla mia miserabile vita! Sì, sono addirittura arrivato a pensare questo, ormai non mi vergognavo minimamente di quello che pensavo e facevo. O meglio che ho fatto: il corpo di Gianna giace in cantina ormai inerme. Volevo liberarmi di Gianna, non legarmi a lei, ma quel legame terrificante mi avrebbe perseguitato anche dopo la sua morte orrenda...

 

- Franco, complimenti. Gran bel monologo! Hai recitato alla grande. La parte la vivi.
- Grazie, Maurizio caro! Era ora che il mio amato regista mi facesse un complimento!
- Hai visto? Mai dire mai nella vita! E ora quando reciterai più così magnificamente?
- Fino alla prossima parte che sentirò mia – rispose con un ghigno raggelante...

Luciano Marchionna