Maria

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2015 - edizione 14

Ogni volta che mi affaccio tra le tendine penso a chi me l’ha fatto fare.
La nebbia è fitta e non si vede oltre la prima fila di tegole dall’altra parte del vicolo.
Maria è giù al sole ed anche stamani mi bombardava con strizzate di cuore, quelle immagini inviatemi dal porticciolo.
Non gliel’ho detto quanto mi ha fatto male.
«Non farò pesare a nessuno la mia solitudine!» - era il mantra mattutino mentre infilavo la corazza per recarmi in fabbrica. Quanti ragazzi sono emigrati al Nord per lavoro? Quanti hanno preso un monolocale lercio per sistemarsi senza pretese?
«Sarò forte e berrò l’amaro calice del cambiamento!» - auspicai.

 

Passa il tempo ed ho sentore che la solitudine non è poi così nell’ordine delle cose. Non mi era chiaro perchè da settimane non uscissi più il sabato con i colleghi in prova. Andavo al lavoro pulito e ben curato, sorridevo. Non mi stavo lasciando andare, sia chiaro.

Maria mi adottò per vero amore.
Protetto, volevo ripagarla con coraggio e abnegazione, quella per la quale qualsiasi genitore sarebbe orgoglioso. Lei mi ha iniettato l’idea di come ci fosse posto anche per me in questo mondo! Belle premesse, tuttavia le mie convinzioni non sono sempre così ferree come in quest’attimo.
Ogni sera apro la valigia e carezzo quel cappio di corda che mi sono portato da giù. Lo guardo lacrimoso - «Può la mia gamba storpia arrecare un dolore più profondo di quello fisico?» - «Può il rifiuto morire nei fondali del tempo? ».
Quando vidi le membra di Salvatore straziate dal tornio ebbi una fermezza della quale mi vergogno. Nella confusione seguivo attento il lento cedere del sangue quasi aggrumato. Mi trascinai in casa con un pensiero fisso: «Grazie Maria, anch’io ti amo!».
Aprii la valigia e mi liberai del cappio, per sempre.

Gianluca Cirina