Incantesimo

La osservai sottecchi mentre mi sfilava il profilattico e mi asciugava la punta del cazzo con un clinex. Al tenue lucore lunare ch’entrava nel vano auto, la scrutai meglio. Adesso mi piaceva di più, ma era una puttana. Viso al di fuori dei canoni estetici. Prima di scopare, s’era tolta gli occhiali. Gli occhi erano azzurri. Non portava lenti a contatto perché lo sguardo era naturale. Occhi azzurri e sguardo aggressivo. Il mio tipo. Archi sopraciliari perfetti danno profondità allo sguardo. Dubitai che fosse una vera puttana. Qualcosa nei gesti e come aveva scopato me lo fecero dubitare. M’era parso che godesse, ma potevo sbagliarmi. Non aveva usato espressioni volgari, da donna di strada, appunto. Il tono della voce era di una signorilità di alto borgo, ma alcune di alto borgo fanno il mestiere per il gusto di transigere. Poteva avere sui venti anni. Poteva fare l’indossatrice con quel corpo e quella bellezza. Boh! Dalla borsetta di marca - Louis Voutton, penso autentica - estrasse una bomboletta di profumo e se la spruzzò al collo: “Ti piace l’odore?”
“Bello, che profumo è?”
“Fiori di bosco. Marca Selvaggio-impero. Spray elettrizzante. Senti?”
Mi aveva spruzzato il profumo sotto il naso.
“Un po’ pungente... un po’ aggressivo.”
“Toglie anche gli odori del fumo ed ha azione blanda di disinfettante e... mette K.O.”
“Mi piace. Adesso, profumo di fiori di bosco, in sintonia col posto dove devo andare, visto che intorno al mio paese ci sono boschi.”
L’accompagnai dove l’avevo rimorchiata. Prima che aprisse lo sportello, dissi di slancio:
“Stai qui la sera?”
“No. Esco quando mi va.”
“Sei molto elegante...”
“Troppo elegante per una puttana?”
“Non volevo dire questo.”
“Anche tu sei elegante: scarpe sansonite, giaccone in lana tartan, maglia di cotone e pantaloni principe di Galles. Vero?”
“Tutto vero. Te ne intendi.”
Stavo parlando troppo con una puttana, ma volli dire con aria di filosofo:
“Devi essere ricco, figo, abbronzato e modaiolo, sennò non esisti. Ho tutto tranne i soldi. E tu?”
“Troppe domande per uno che non conosco.”
Dovevo esserle simpatico. Non aveva troncato: “Non lo fai per lavoro... per soldi. Vero? Mi sembravi una che stesse aspettando il ragazzo...”
“Sì, non m’interessano i soldi. Ma ribaltiamo l’interrogatorio di primo grado. Tu perché vai a puttane? Desiderio di cambiare donna? Solitudine affettiva? Feticismo?”
“Quando ti ho vista sul marciapiede, mi sei piaciuta.”
“Sì, ma ci dev’essere una motivazione più profonda.”
“Se non mi fossi sembrata attraente, non mi sarei fermato a chiederti sesso.”
Adesso sì che mi piaceva molto. Volevo rivederla: “Come posso rintracciarti?”
“Ecco il mio biglietto. Non lo do a tutti. Sei un privilegiato. Però, se ci dovessimo rivedere, non farmi troppe domande.”
“Ah, grazie.”
Il rombo del motore mise fine alla conversazione. Allontanandomi la osservai dallo specchietto. Ebbi tenerezza nel vederla sola tra le ventate. La sua figura scomparve un una nuvolaglia di polvere, insieme col ricordo della dolce scopata. Una scopata e niente di più. Accesi la radio sintonizzata su una canzone di Madonna: “Time goes... so slowly...”
Una puttana coi bigliettini da visita come un libero professionista: “Time goes... so slowly...”
Una puttana bella ed elegante e che lo fa per vizio. Troppo complicato. Buttai il bigliettino da visita dal finestrino, ma il vento me lo respinse in macchina. Mi cadde tra i piedi e non lo raccolsi.
La provinciale prese a risalire per le colline, abbattute dalle raffiche del vento di terra. Boschi cupi e silenziosi nel gelo di dicembre. Nere trame di querce ed in cielo le pressanti nubi. Verso la pietraia del fiume, pioppi spenti, nudi ed irrigiditi dal gelo. Ventate radenti l’asfalto e gemiti della natura dolente. Se il vento taceva, era più vasto il silenzio del mondo. Nonostante il riscaldamento, avevo gambe fredde e scarpe gelate. Panico. Realtà distorta. La mente alla deriva in improvvise fluttuazioni spazio - temporali. La strada illuminata dai fari, ondulante come nastro sottile e lucente. Alberi ad allungarsi a dismisura e ad agitare scheletriche dita. Alberi irreali come mostruose ombre grigiastre. In manti di nebbia, indefinite presenze: occhi luccicanti, smisurati, orribili e sanguinolenti a fissarmi tra neri tronchi. Sussurri modulati dal forte vento. Anime dannate a contorcersi a lato della carreggiata, o era la polvere mulinante. Avrei giurato di aver intravisto donne nude emergere e scomparire nei tronchi contorti delle querce. Gemiti cupi, mormorii, grida dolenti sul flusso del fiume, grida strozzate nelle forre boscose. Anime. Anime dannate sperdute nella notte, emergenti da mostruose nubi, da mulinelli polverosi e da frasche ramate. Cupi lamenti la natura squassata al cielo levava. In mezzo ai neri tronchi, alle ortiche ed ai canneti, gemiti di gente agonizzante. Frenai ed uscii dall’auto. Respirai forte e mi stropicciai gli occhi. Nel fondovalle, la rovinosa corrente del fiume. Ma che è? Temetti di stare per morire. Anossia cerebrale? Subito dopo gli oggetti riacquistarono la giusta valenza. Tutto si fermò nella stasi invernale. Fui certo che si era trattato di un attacco di panico, ma non c’era da stare tranquilli. Poteva essere il sintomo di una transitoria ischemia cerebrale. Avrei dovuto controllarmi lo stato del cervello con una TAC. L’aria fredda a sbattermi in faccia, le dita gelate, ma stavo meglio. Respirai profondamente e rientrai in auto. Dalla borsa nel vano posteriore, estrassi l’apparecchio per la pressione che misi al braccio e vidi che c’era uno sbalzo in alto della massima che poteva dipendere dall’agitazione. Ascoltai col fonendoscopio i toni cardiaci: frequenza sugli 80. Non c’era da preoccuparsi. Speriamo che non è arterosclerosi, ischemia carotidea, cisti meningee... Stop. Mi stavo preoccupando troppo. Dovevo farmi le analisi ed aspettarne l’esito con serenità. Guidai lungo la strada chiazzata dagli ovali degli anabbaglianti. Per fortuna, ero nel bosco del mio comune. Senza accelerare, arrivai dopo una quindicina di minuti in paese. Preferii non chiamare qualche collega medico. Mi sarei fatto le analisi in privato e stop. Poteva essere stato lo stress, il freddo, la scopata con la puttana. Il telefonino trillò: “Pronto...”
“Pronto, ti ricordi di me?”
Era la voce di una giovane donna. Carla? la collega medico? Chiesi: “Chi è lei?”
“Fiori di bosco...”
“Fiori di bosco? Che significa?”
“Non ricordi la scopata che ti sei fatto ieri sera con me in auto?”
Era lei, la puttana... Come aveva fatto ad avere il mio numero di telefono? Disse:
“Lo spray che ti ho spruzzato ieri sera col profumo dei fiori di bosco era un incantesimo. Adesso, tu mi desidererai per sempre. Io sono la Morte... sono colei che visse in un’epoca antica ed a venti anni morì. Tu sei entrato in me chiavandomi. Adesso vivo in te.”
Mi precipitai a raccogliere il suo biglietto da visita che avevo cercato di buttare via e che il vento aveva ricacciato nel vano dell’auto. Lo trovai alla fine. Sul biglietto c’erano due frasi:
SONO IN TE.
SONO LA MORTE.

Giuseppe Costantino Budetta