L'orco

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2014 - edizione 6

Lui.
Le ho viste, stanno per bussare. Non posso. Qui in casa mia non posso. Sarebbe troppo pericoloso. Il desiderio mi infiamma il viso, lo sento bollente. No, non si può. Le avessi trovate fuori da scuola, come tutte le altre, le avrei fatte salire in macchina con una delle solite scuse e portate alla cascina. Le osservo mentre percorrono il vialetto che conduce dritto alla mia porta. La porta dell’orco. La gonna un po’ corta della streghetta le lascia scoperte parte delle cosce e dei polpacci ricoperti dalla calzamaglia nera. Non credo di potere resistere.
Scendo le scale con circospezione ed esasperante lentezza. Spero se ne vadano. O spero di no. I cardini non cigolano affatto quando spalanco la porta. La vista delle due bambine, con le loro maschere, mi invade gli occhi e il cervello.
- Scappate, andatevene finché siete in tempo. Voi non lo sapete, ma siete entrate nella tana di una belva. - vorrei dire loro.
Non ci riesco, il calore che mi avvolge lo conosco, è quello dei momenti in cui l’uomo lascia il posto all’animale. Entrare. Devo farle entrare. Farfuglio una scusa per farle passare attraverso l’uscio. Ci credono. Chiudo la porta alle loro spalle. La streghetta osserva il salotto. Si gira verso di me con gli occhi tracimanti di terrore. Ha capito. Troppo tardi, ormai.
Paola.
Questo vestito da strega mi sta stretto. L’ho usato anche l’anno scorso, ma adesso tira dappertutto. E poi sono stufa. Ma la mia nuova amica Giada non ne vuole sapere. Siamo rimaste solo noi due, gli altri bambini sono già a casa e io devo ancora correre in giro per la città con questa ragazzina vestita da zombie che nemmeno conosco.

- Ancora un po’, per piacere. - mi aveva detto mezz’ora prima.
E poi nemmeno mi piace granché halloween. Quando dico “dolcetto o scherzetto” mi vergogno e divento tutta rossa.
Vedo Giada trotterellare allegra all’interno del vialetto. Bussa. Nessuno ci apre, meglio così. Mi giro per andarmene, ma Giada mi chiama. La porta si è aperta. Pronuncio per l’ennesima volta la solita litania. Solo in quel momento osservo il tizio che ci ha aperto. Gli occhiali dalla montatura nera gli danno un’aria seria, ma le guance, di un colore rosso intenso, lo fanno sembrare un personaggio dei cartoni animati giapponesi. Appena varcata la soglia giro lo sguardo verso destra. Un tavolino in legno regge un contenitore argentato colmo di dolci. Vicino a questo un altro bagliore metallico raggiunge i miei occhi. Ha la forma del coltello che la mamma usa per le torte.
La porta si chiude.
Lo sguardo dell’uomo non mi fa più ridere.
Giada.
Abbandono la presa. Le mie mani, tinte di un rosso scuro, sono scivolose come se fossero insaponate. Il manico nero del coltello che si alza in verticale sulla macchia di sangue sembra l’albero di una barca a vela sul mare.
Il mio assassino giace a terra con il sangue che gorgoglia in gola.
Così impara a toccare mia sorella.

Lodovico Ferrari