Campo di grano con volo di corvi

Vincitore del concorso "Premio Scheletri", 2014 - edizione 6

“Sono campi estesi di grano sotto cieli agitati e non avevo bisogno di uscire dalla mia condizione per esprimere tristezza e solitudine estrema.”
(Vincent)

 

C'è qualcosa di strano nell'aria, un odore sconosciuto, sprazzi di natura minacciosa che incombono sulla mia anima. Non so dove sono, né come sono giunto qui.
Apro gli occhi a fatica. E' come se avessi i bulbi puntellati di spilli. Sotto al peso del mio corpo, spighe di grano mi pungono la carne arrossata. Sopra di me, un cielo blu scuro macchiato di vortici neri romba di tuono dietro le dense nubi. Premessa di una tempesta violenta. Nei dintorni non vedo altro che pareti di paglia e ciuffi di grano appiattiti dalla gelida brezza.
Non ricordo questo paesaggio eppure mi è così... familiare.
Quando mi alzo, le ossa del corpo scricchiolano a mo' di carta da imballaggi. L'orizzonte frustato di nero ha un non so che di finito, un paesaggio claustrofobico predestinato all'oggi ma depredato del domani.
In lontananza scorgo un'onda color inchiostro ergersi al di sopra del grano per poi rituffarsi nei gialli meandri. Corvi. I loro versi striduli mi feriscono le orecchie, intonando requiem mortuarie.
Sento il cuore scalpitarmi in petto, la fronte rigata dal sudore, il respiro sibilato. Voglio scappare, allontanarmi da questo luogo soffocante. Dov'ero prima di addormentami?
Amsterdam, ma certo.

Mentre corro terrorizzato, inciampo su qualcosa. A pochi centimetri da me c'è il cadavere di un uomo. Ha i capelli radi e rossicci, la barba incolta, la pelle rosicchiata dai corvi. La camicia logora presenta una grossa chiazza purpurea proprio sullo stomaco. Forse un colpo d'arma da fuoco.
I corvi gli svolazzano attorno prima di avventarglisi sulle carni. I becchi lucenti e affilati affondano nelle cavità oculari del poveruomo. Dalle guance rosicchiate intravedo le arcate dentali e la bocca ricolma di larve.
A stento trattengo il vomito.
Uno dei corvi incrocia il mio sguardo, gelandomi il sangue. I suoi occhi profondi han poco di animalesco e molto di umano, come se dentro quel corpo piumato si celasse l'anima di un uomo. Ne distinguo chiaramente l'iride, la pupilla, la paura.
Chiede il mio aiuto.
Di colpo il cadavere tossisce e guizza come un pesce all'amo. E' ancora vivo? Non posso credere ai miei occhi. Quando si alza, i corvi schizzano via spaventati, trascinandosi dietro i residui del banchetto. La faccia dell'uomo è una maschera di brandelli ed eruzioni ossee, il ritratto della putrefazione.
Vorrei gridare e scappare, ma son pietrificato.
Il non-morto mi si avvicina, trascinandosi dietro gli arti appesantiti. L'andatura ricurva, un orecchio mancante, tetre cavità al posto degli occhi. Non vuole più sentirsi solo. Mi addenta il collo, strappando via le mie carni. Il sangue bollente mi bagna le vesti, mentre il paesaggio di tempera diviene sempre più sfocato; il cielo minaccioso, il giallo del grano, il fruscio dei rapaci...
La chiamano Sindrome di Stendhal.
E io sarò l'ennesimo corvo dagli occhi umani.

Samuele Fabbrizzi