Liquidi

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2013 - edizione 5

Il poliziotto osserva il lungo fabbricato che si staglia dopo il labirinto di pali e filo spinato. Un parallelepipedo di cemento grigiastro coperto di graffi e macchie simili a grosse ustioni. Il cadavere di un gigante malvagio lasciato marcire nel mezzo di un prato spelacchiato. Le finestre sembrano ferite non rimarginate.
- Ben arrivato, detective Miller.
Il poliziotto si volta e inquadra un sorriso stanco tra due occhi elettrici e un triangolo di pizzo.
- E lei è il comandante Marcelo, immagino.
- Sì, mi scuserà se vado subito al punto: cosa sa del villaggio dei Liquidi?
- Per la verità poco, signore. Una fabbrica in disuso divenuta una sorta di ospedale di fortuna dove si rifugiano le persone colpite da una malattia ancora non identificata. Al comando mi hanno detto del bisogno urgente di rinforzi per evitare fughe.
- Non esattamente, detective. Pochi di loro vogliono scappare, non ne avrebbero le forze. Il problema sono quelli che vogliono entrare. Abbiamo bloccato molte persone che non resistono alla tentazione di vedere gli effetti del morbo.
- Ma come diventano in realtà?
- Corpi in completo disfacimento. Si sciolgono lentamente e restano vivi quasi fino alla fine, per questo li chiamano uomini liquidi. Nessuno conosce la causa ma non sono contagiosi, e questo attira i curiosi come mosche.

L’oscurità odora di umido come foglie nelle pozzanghere. Il minimo rumore rimbalza sul metallo intonando il rigurgito sotterraneo di un vulcano.
- Ho le braccia in fiamme, non ce la faccio più. – si lamenta Nicola, rannicchiato dietro Andrea che, seccato, ribatte: – Da ore strisciamo dentro questo cazzo di condotta lurida. Mi hai frantumato le palle perché ti portassi a vederli. Mancheranno cinque minuti, non rompere!
È vero, Nicola sogna di vantarsi con i compagni di classe per aver guardato da vicino un Liquido ma un grumo di paura diventa sempre più grosso nel suo stomaco.

 

Dal vetro rotto un uomo osserva i due poliziotti confabulare, puliti e integri. Nella mano stringe un coltello insanguinato. La rabbia dentro di lui è un’eruzione di lava incandescente. Maledice i dottori che dicevano di voler curare suo figlio. Si accorge che le scarpe lasciano orme cremisi, deve aver pestato il sangue di uno dei medici che ha giustiziato. Ritorna vicino al figlio che sta morendo sdraiato su una barella addossata al muro, di fronte al terminale della vecchia condotta. Da una settimana si sta sciogliendo. Il tanfo è intollerabile. Nel pavimento chiazze di un umore trasparente che gocciola dalla lettiga. Gli tocca la fronte e le dita si impregnano di liquido appiccicoso. Il ragazzo muove le labbra violacee, vorrebbe parlare ma uno stridio disperato inciampa nei denti marci.
- Non so quale diavoleria ti ha colpito, ma non temere - Fissa la tubatura arrugginita e un ghigno prende forma sul suo viso mentre ascolta i rumori che provengono dall’interno.
- Stanno arrivando i pezzi di ricambio.

Andrea Cavallini