Uno di meno

Eravamo io, Silvestro, Antonello e tanti altri ed era uno dei soliti sabati. Antonello, per di più, aveva avuto una giornata molto faticosa e quando gli proponemmo una tranquilla serata in pizzeria non fece tante storie e si mise d’impegno a prenotare un tavolo per tutta la combriccola.
La sua scelta cadde sul “quarantasette”, una trattoria-pizzeria non molto distante dalla nostra città che Lorenzo Bastilani aveva aperto da pochi mesi: non si trattava di una struttura elegante, di quelle in cui si sarebbe potuto festeggiare un evento particolare, pur tuttavia garantiva un’accoglienza piacevole ed un’atmosfera familiare, buona per le rimpatriate fra amici e per le conseguenti, chiassose, discussioni e per questo era già molto frequentata.
Egli prenotò per quattordici persone e, verso le ventuno, ci ritrovammo tutti tra gli ulivi secolari che ornavano l’ampia area di parcheggio antistante il locale, illuminati dalla luce giallastra dei lampioni.
Rumorosamente, proprio come avrebbe fatto una mandria di buoi, salimmo le scale che conducevano in alto, verso una veranda tutta cinta di ampie vetrate e, varcatane la soglia, fummo investiti da un piacevole calore e dal vociare dei numerosi avventori che affollavano la sala.
I nostri tavoli, uniti in uno degli angoli, spiccavano come isole incontaminate in un mare di teste ondeggianti mentre i camerieri, abili giocolieri, serpeggiavano negli stretti passaggi tra un tavolo e l’altro consegnando fumanti pizze dalla prelibata fragranza.
Ci facemmo strada in fila indiana, mentre uno smilzo ragazzino con la giacca bianca troppo grande per la sua taglia gridava: “Caramanzi?” e, ricevuta risposta affermativa da parte del capo-branco Antonello, in testa a tutti nella lunga fila, si dispose a scostare le sedie dal tavolo per favorirci l’ingresso.
Quando tutti fummo seduti, in attesa che egli tornasse con i menu, fissammo il posto vuoto a capo tavola: ancora una volta, il nostro amico Virginio era assente.

Vi fu chi scommise sul suo orario d’arrivo, dai tre quarti d’ora fino alla mezz’ora dopo che fossero state servite le pizze. Era suo costume in ogni occasione, infatti, presentarsi sempre tardi e trafelato. Cosa avesse da fare ogni sabato è presto detto: passava più di un’ora nel bagno a far toletta, e se tutti i capelli che aveva in testa non si fossero messi al loro posto com’era suo desiderio, a forza di gel e pettine, non muoveva un passo fuori dall’uscio di casa.
Evidentemente, per quella sera, egli ebbe a combattere con più di un capello dispettoso, perché gli antipasti e le pizze furono ordinati, giunsero persino al tavolo, cominciammo a mangiare e solo quando ormai, dopo più di due ore, stavamo per completare il pasto giunse la telefonata in cui egli, dispiaciuto, confermava la sua assenza!
Nulla di nuovo, dunque, se non fosse stato per l’improvvisa reazione di Antonello: egli, dopo che ebbe ricevuto la comunicazione di Virginio, divenne d’improvviso cupo e preoccupato. Cominciò ad agitare la gamba al punto tale da far vibrare il tavolo e fissava la sedia vuota con sguardo perplesso e allucinato.
Io non potei esimermi dall’osservarlo, avendolo di fronte, ed alla fine, con un mezzo sorriso sulle labbra, mi sporsi verso di lui sussurrandogli:
“Cosa c’è che non va?”
Egli alzò di scatto la testa e rimase per un istante in silenzio... poi disse:
“Diamine... ma non te ne sei reso conto?”
Aggrottai le sopracciglia.
“Di cosa avrei dovuto rendermi conto?” gli risposi, perplesso.
“Ma come... senza Virginio... siamo in tredici!” Bisbigliò, rimanendo a corto di fiato.
Ebbi come una scossa elettrica attraverso il cervello e le mie dita persero la presa della forchetta, che si abbatté sul bordo del piatto con gran fracasso.
Com’era stato possibile che non ce ne fossimo accorti? Guardai rapidamente gli altri miei amici, ancora impegnati a ridere e scherzare tra loro, senza che nulla li turbasse. Come me poco prima, essi non avevano coscienza della terribile situazione in cui ci trovavamo a causa dell’assenza di Virginio.
Dall’estremità sinistra del tavolo, Eligio accennò ad alzarsi con un allegro “vado a chiedere il conto!” e proprio nell’istante in cui stava per staccarsi dalla sedia lo fulminai con un grido che catturò l’attenzione della sala...
“No!”
Eligio rimase con il sorriso stampato sulle labbra, ma con uno sguardo misto tra stupore ed interrogazione. Si rilassò di nuovo sulla sedia e mi disse:
“Ma che diavolo ti prende?” - e si guardò intorno allibito – “Hai fatto girare tutti!”
Protesi la mano in avanti, in un gesto di calma... e mi rivolsi non solo a lui, ma a tutta la tavolata:
“Ragazzi, siamo in tredici... Virginio non è più venuto, siamo tredici!”
A quelle parole, tutti rimasero come paralizzati e smisero all’unisono di mormorare. Lo stesso Eligio, fissando la sedia vuota a capo tavola, si lasciò sfuggire un’improvvisa imprecazione.
“Cristo Santo! C’è mancato davvero poco...” disse alla fine, passandosi le dita tra i capelli arruffati.
Fu chiaro a tutti, a partire da quel momento, che il primo tra noi ad alzarsi ed abbandonare il tavolo sarebbe incorso in terribili sventure, se non a morte certa.
“Santo Cielo!” proruppe Tommaso “Tre anni fa capitò la stessa cosa al gruppo di Sara, vi ricordate? Al ristorante si ritrovarono in tredici al tavolo, ignari del fatto che portasse sfortuna. La prima ad alzarsi fu la povera Annamaria. Ricevette una telefonata dal fidanzato e per parlare con maggiore tranquillità si alzò dal tavolo: la notte stessa fu colpita sotto al portone di casa dai frammenti del cornicione, che le piombarono addosso uccidendola all’istante...
Vi fu un mormorio di disappunto: non era il primo dei tanti casi di cui avevamo sentito parlare, chi più, chi meno.
Cominciammo a controllare con impazienza l’ora. Erano le undici ed eravamo praticamente in stallo.

 

***

 

Passò un lunghissimo quarto d’ora nel corso del quale ognuno di noi si ingegnò ad elaborare le più astruse soluzioni per abbandonare, incolumi, il tavolo.
Quando già molte persone erano andate via e la sala ormai silenziosa, fu lo smilzo cameriere assegnato al nostro servizio che offrì lo spunto per risolvere l’empasse. Egli, vedendo il nostro indugio, si avvicinò per chiederci se gradissimo altro ovvero desiderassimo il conto. Ci fissava con aria interrogativa, del resto, stavamo tutti lì a guardarlo con le facce contrite proprie di chi avesse una impellente necessità di correre al bagno e tuttavia non potesse farlo.
Eligio fu il più pronto di tutti:
“In verità, vorremmo pagare il conto... ma abbiamo riscontrato un problema non da poco...”
Il cameriere sgranò gli occhi ed allargò le braccia.
“Quale problema?”
“Non si tratta della pizza, che era buonissima ma... dei posti a sedere... delle sedie, ecco!”
“Non capisco...”
Il cameriere si protese sul tavolo, poggiando i palmi delle mani sulla tovaglia bianca.
“Le spiego” e così dicendo, Eligio ammiccò a noi tutti che lo fissavamo inebetiti “queste sedie di legno impediscono di tenere una corretta postura mentre si mangia. In particolare, non esiste la benché minima possibilità di avere una comoda seduta ed i glutei, dopo un po’ di tempo, cominciano ad essere dolenti...”
Il cameriere sorrise, incredulo. Poi, constatando la nostra assoluta serietà e puntato dai nostri strani sguardi disse:
“Perdonatemi ma non ho mai sentito nulla di simile. Sono tre mesi che la nostra trattoria è in funzione e non abbiamo mai avuto simili lamentazioni dai nostri clienti...”
“Provi a sedersi... la prego!” Incalzò il mio amico, indicando la vuota sedia artefice della nostra paura.
“Ma sono in servizio, se avete delle lamentazioni vi prego di rivolgervi al signor Bastilani...” Oppose lo smilzo, non tradendo un po’ d’imbarazzo.
“Ma guardi, non è per fare polemica... è giusto per constatare. Ci dia questa soddisfazione. Si sieda su quella sedia e ci dica se non avverte una strana sensazione ai glutei...”
Il ragazzo si guardò attorno, incrociando lo sguardo di altri suoi colleghi impegnati a rassettare i tavoli, i quali, udendo il fraseggio, si erano avvicinati incuriositi.
“Mah...” Sbuffò alla fine, mentre prendeva la sedia per la spalliera e la spostava per farsi posto.
La tavolata fu attraversata da un fremito e da una straordinaria tensione. Sguardi fissi sull’esile figura del cameriere, non appena egli si mise a sedere con aria sempre più perplessa noi scattammo tutti in piedi all’unisono e con tanta veemenza che i piatti sul tavolo sobbalzarono ed i bicchieri caddero riversi, macchiando e bagnando la candida tovaglia.
Giorgio, che si trovava proprio vicino allo smilzo, incominciò a piangere, non avendo più modo di trattenere la tensione oltre...
“Grazie, grazie!” biascicò, e si buttò su di lui per abbracciarlo.
Fu necessario l’intervento di due persone per staccarlo dall'ampia giacca dello smilzo, il quale, dal canto suo, rimase estremamente sconcertato, tanto da starsene impietrito sulla sedia osservando smarrito il nostro modo di fare, che di per certo gli appariva bizzarro.
Mettemmo alla svelta i soldi sul tavolo insieme ad una cospicua mancia ed uscimmo alla spicciolata nel cortile degli ulivi, sempre seguiti dagli sguardi del giovane cameriere e dei suoi colleghi che, perplessi, lo circondarono per chiedere spiegazioni mentre egli, ancora seduto, mimava il gesto del dito intorno alla tempia, scuotendo il capo.

 

Solo quando fummo tutti in macchina, partendo alla volta di casa, si ebbe di nuovo il coraggio di dire qualcosa sull’avventura accorsa:
“Quell’imbecille di Virginio ci ha quasi fottuto questa sera!” Sbottò Giorgio, arpionando con le dita il sedile della macchina.
“Non posso crederci... eravamo in tredici e non ce ne siamo resi conto...” Aggiunse Antonello, mentre sterzava tra i tornanti tutti in discesa “avremmo avuto certamente una disgrazia e ci saremmo caduti dentro da perfetti idioti!”
“Una scena memorabile” lo interruppi “mai visto uno scatto così repentino. Ci siamo alzati all’unisono!”
A quelle parole, ridemmo tutti fragorosamente, ricordando la scena di poc’anzi avvenuta al cospetto del cameriere seduto.
Tuttavia, qualcosa dovette solleticarmi il cervello perché, immediatamente dopo, avvertii come un senso di pericolo...
“Aspettate, aspettate... zitti per Dio! Ci siamo alzati tutti insieme dal tavolo?” Dissi, cercando di mantenere ferma la voce, riflettendo su ciò che avevo appena detto.
Antonello mi fulminò con lo sguardo...
“Ci siamo alzati... in tredici?” mormorò inebetito... ma il corso dei suoi pensieri, qualunque fosse, fu interrotto dall’imprecazione di Giorgio che, dietro di me, urlò disperato:
“Quello stronzo di un cameriere è rimasto seduto sulla sedia mentre andavamo via!”
Rimasi impietrito, mentre, affrontando l’ultimo tornante di via Male Sarto con una brusca sterzata, Antonello sfondò il cancello in ferro battuto di Villa Grisella ed in pochi istanti, fece breccia nella camera da letto dell’avvocato Remigio Frustano, distruggendo ogni cosa.

Pasquale Francia