TFR

Sabatini è seduto a un tavolino all’aperto. Ha una testa spelacchiata, a pera, che luccica sotto il sole. Mentre allunga il collo per cercarmi tra la folla sembra una tartaruga decrepita. Finalmente mi vede e fa un cenno di saluto. Non mi guarda negli occhi.
Mi siedo di fronte a lui senza dire nulla. Una cameriera passa a prendere le ordinazioni. Due spritz. Sabatini è nervoso e si tormenta le mani. Dal suo corpo si solleva un misto di dopobarba di infima qualità e di paura.
Lo faccio aspettare ancora qualche secondo e poi spezzo il silenzio. “Hai la roba?”
Annuisce e indica la ventiquattrore che tiene in grembo.
“Passamela.”
Prendo la valigetta senza controllare che all’interno sia tutto a posto. Sabatini è un codardo ma non uno stupido: sa che lavoro per il Russo, e che il Russo non perdona chi prova a fregarlo.
Frugo nella tasca del giubbotto e tiro fuori una busta. La lancio a Sabatini, che la afferra goffamente. “Ecco il compenso. C’è qualcosa di meno del pattuito. Ci hai fatto aspettare.”
Sabatini apre la bocca per protestare, ci ripensa e la richiude. Lancia un’occhiata veloce attorno, per assicurarsi che gli altri avventori non possano sentire, e sussurra: “Non è colpa mia. Ho dovuto cambiare tragitto per evitare i controlli. Fare il corriere diventa sempre più rischioso...”
Lo stoppo con un gesto della mano. “Il Russo ha deciso così.”
Il grosso pomo d’Adamo di Sabatini ballonzola su e giù. Non gli lascio il tempo di biascicare altre giustificazioni. Con la ventiquattrore stretta in pugno, mi alzo e lascio il tavolino. “Paga tu il conto!” urlo al suo indirizzo per sovrastare il brusio dei passanti.

È finita, mi dico mentre mi faccio largo tra la folla che sciama indaffarata sul marciapiede. È finita. Devo solo portare la ventiquattrore al Russo, e poi a casa. Prima di tutto una bella doccia, che gratti via tutto lo sporco e lo schifo degli ultimi venti anni. Poi le valigie, il biglietto aereo, la partenza. Ma per andare dove? Magari un’isola tropicale. Un posticino tranquillo, una casetta a due passi dalla spiaggia, dove perdersi in lunghe passeggiate sulla battigia. L’idea d’improvviso mi sembra divertente. Ridacchio da solo, come un cretino.
Sorpasso una signora impellicciata carica di buste della spesa e torno con la mente a una scena di un mese fa. Io e il Russo in auto, bloccati in un ingorgo in centro città. Piove. Il Russo sta osservando annoiato le goccioline che scivolano lungo il finestrino. “Voglio farla finita con lo spaccio,” dico di colpo. Alza appena lo sguardo su di me, scrutandomi con quell’aria distaccata che fa tremare tutti quelli che hanno a che fare con lui. Me compreso. “Come mai?” chiede.
“Sono stanco.”
“Di cosa?”
“Di tutto.”
“Non ti trovi bene a lavorare per me?”
“Non è questo il punto.”
Il Russo tace per un tempo che mi sembra interminabile. Potrei giurare che gli ingranaggi del suo cervello stanno girando frenetici. Resto in attesa di una sua risposta. L’unico rumore percepibile è il ritmico tamburellare della pioggia sul tetto della macchina. Alla fine il Russo mi concede un sorriso fugace, il primo da quando lavoro per lui. “E sia. In questi anni mi hai servito con fedeltà.” Dice proprio così: servito con fedeltà. Come se fossi un cane e lui il mio padrone. “Ti meriti di andare in pensione. Prima però c’è un ultimo lavoro da fare.”
“Grazie.” È tutto quello che riesco a dire.
Il Russo non risponde. Torna a riservare la sua attenzione alle gocce di pioggia, avvolto in una cappa di mutismo. Finalmente il traffico inizia a scemare. Ripartiamo.
A riscuotermi dai miei ricordi è la suoneria di un cellulare. Il mio. Guardo il display e riconosco il numero. Mi sforzo di non far tremare la voce mentre rispondo. “Pronto?”
“Sono io,” dice il Russo. “Dove sei?”
Davanti a me l’entrata della stazione pare un’immensa bocca impegnata senza sosta a fagocitare e a sputare persone. “Vicino alla stazione” rispondo.
“Sabatini ti ha dato la roba?”
“Sì”.
“L’hai controllata?”
Mi mordo il labbro inferiore. “No.”
“Fallo.”
Sento lo stomaco contorcersi mentre mi accovaccio e, con la mano libera, faccio scattare la chiusura della valigetta. Mi aspettavo dei panetti di cocaina. Trovo invece un pacchetto sottile circondato da alcuni fili e da quella che a prima vista sembra una grossa sveglia. Impiego qualche secondo per realizzare che è una bomba ad orologeria in procinto di esplodere.
Il mio è poco più di un bisbiglio. “Sabatini mi ha fregato…”
“No, non Sabatini. Io ti ho fregato.” Il Russo parla con voce incolore, come se stesse discutendo di una sciocchezza da niente. “Lavori per me da vent’anni, ma non posso lasciarti andare via così. Non sono diventato il padrone di questa città lasciando che fossero gli altri a decidere al posto mio. Se qualcuno smette di lavorare per me, è perché io decido che non mi serve più. E tu non mi servi. Mi dispiace. Considerala una liquidazione. Un trattamento di fine rapporto.” Riattacca ed io rimango imbambolato a fissare la lancetta del timer fermarsi sullo zero. Vorrei urlare ma è allora che tutto si dissolve in una cortina nera.

Matteo Bigarella