Cogito ergo sum

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2011 - edizione 3

Sembrano secoli, è ancora tutto come lo ricordavo. L’insenatura, la spiaggia, la crepa sulla roccia, abbastanza grande da permettermi di entrare.
Lo facevamo sempre, io ero il corsaro e guidavo i miei nell’esplorazione “della caverna del tesoro”. Era il nostro posto preferito.
Qui diedi il primo bacio.
Qui, l’ultima estate della mia adolescenza, mio fratello chiuse il mondo fuori dalla sua testa.
Marco entrò nella caverna in cerca di legna portata dal mare. Non so cosa accadde, né quale collegamento in lui si spense.
Tornò indietro trascinando i piedi, senza guardarci.
Si inginocchiò davanti al fuoco fissando un pezzo di brace carambolata via. Non rispose alle domande, non reagì quando lo spinsi, continuò a fissare la brace ormai annerita.
“Addio.” sussurrò, fu l’ultima cosa che disse.

 

Vent’anni sono tanti e le strade della vita ci hanno diviso. Non ho più visto i “bucanieri” a parte Marco. Anche se andarlo a trovare in clinica non è una vera frequentazione.

 

Mi infilo nella fenditura e sfioro lo schermo del cellulare perché si illumini.
L’interno della grotta è più angusto di come lo ricordavo, la mia caverna del tesoro è solo un buco.
Un riverbero di luce esce da una piccola fenditura che non ricordavo.
Metto via il telefono e il bagliore si fa più vivido, mi avvicino. Non appena sollevo lo sguardo mi trovo avvolto in una fitta e densa nebbia. Non mi piace voglio uscire ma non riconosco più i contorni, cerco di orientarmi, qualcosa mi tocca la schiena, poi le gambe, il viso ed è come se l’aria stessa divenisse talmente densa da avere una propria consistenza.
Mi volto di scatto ma il risultato non cambia, il mio campo visivo è saturato dalla sostanza lattiginosa e le appendici vaporose continuano a toccarmi.
I colpi si fanno più forti, mi sento avvolto da qualcosa di denso e freddo. Arranco dove dovrebbe essere l’uscita. Nel gelo che mi ricopre credo di udire la voce di un Marco ancora bambino. La paura ormai sovrasta ogni altra emozione, vorrei correre ma le gambe pesano come pietra. Mi si chiudono gli occhi, ho sonno.

Mi sembra di galleggiare ora, la mia mente fluttua nel vuoto. Non è la vita che fluisce fuori dal mio corpo, sono io che lo lascio.
Non so se sia l’anima o la mente, ma tutto ciò che sono, tutto ciò che mi identifica, sta scivolando via, tutta la mia vita tirata fuori a forza da mani bianche e inconsistenti.

 

Nuoto, sospeso in questo nulla bianco.
Sollevo le mani per portarmele al viso. Non le vedo.
La voce di mio fratello è distinguibile ora.
Mi volto di scatto, almeno credo di averlo fatto. Nella coltre intravedo l’uscita.
La nebbia inizia a diradarsi, come se venisse lentamente risucchiata indietro, e io con lei.
Cammino con piedi inesistenti, poggiati su un tappeto d’aria.
Penso, quindi esisto.
Perché allora il mio corpo si allontana?
Vedo me stesso andare verso l’uscita. -No!- Non esce nessun suono dalla mia bocca invisibile, ma il guscio vuoto che ero io, solleva il mento e sussurra un “no” che nessuno riuscirà a sentire, poi sparisce all’esterno.

Polissena Cerolini