Gli artigli della notte

Il treno era pieno. Si tolse subito la leggera giacca, arrotolò le maniche della camicia. In quella carrozza affollata e caldissima mancava l’aria, ed essere sfiorato nella ressa dalle persone gli fece montare una rabbia velenosa. Così non andava bene. Si impose di respirare lentamente, e finalmente si calmò. Ma continuava ad avvertire quel fastidioso pizzicore alla nuca. Gli era venuto non appena entrato nella carrozza, provocando l’involontario, impercettibile drizzarsi dei capelli corti e radi. Trattenendo il fiato perlustrò la calca, e allora lo vide.
Sedeva dall’altro capo della carrozza, sembrava stanco e inerte, solo le orecchie piccole, a un attento sguardo, mostravano un tremolio sconcertante. Anche così, il suo aspetto trasudava ferocia e bestialità. Le mani villose, la figura tarchiata ma atletica, il naso pronunciato con le larghe narici che spiccavano, rivelavano le sue abilità nascoste: pedinare, cacciare, uccidere.
Non sembrava essersi accorto di lui. Ringraziando la sua buona stella, si avvicinò lentamente alla porta del treno, sempre trattenendo il fiato. Finalmente apparve la banchina della stazione. La porta si spalancò, una folata d’aria fresca portò sollievo ai viaggiatori accaldati. In quell’istante, mentre varcava la soglia, le narici dell’uomo seduto fremettero. Guardò nella sua direzione, un lampo rossastro brillò nei suoi occhi. Ma ormai lui era fuori, e saettò veloce sulla banchina. Lasciando cadere la giacca si voltò, sempre correndo. Mentre la porta del treno si chiudeva, lo sconosciuto balzò fuori ringhiando, ma restò bloccato in mezzo. Senza aspettare oltre, si gettò sulla scala mobile, saltando i gradini due a due.
Era sceso a una delle fermate metropolitane in pieno centro, ed era sabato sera, la zona era tutto un viavai di persone. La cosa migliore che gli venne in mente fu di accodarsi alle comitive che avanzavano nelle strette viuzze del centro. Più tardi si sarebbe preoccupato di come tornare a casa. Prendere un taxi sarebbe stato un suicidio, il traffico era completamente bloccato, e sarebbe stato come servirsi su un piatto d’argento al suo aggressore.
Le viuzze illuminate dalle insegne dei bar gli restituirono un po’ di sicurezza. Lì era difficile essere colto di sorpresa, con tutte quelle luci, e nel caso poteva sempre buttarsi in un locale per evitare problemi. Tuttavia, sapeva di essere osservato. Quel fastidioso prurito alla nuca continuava. Proseguendo con passo sostenuto, arrivò davanti ad una stradina laterale, e ci buttò dentro lo sguardo. Poco più avanti si apriva uno slargo poco illuminato da cui partivano altri piccoli vicoli. Avrebbe potuto infilarsi lì per far perdere le tracce. Ma aveva percorso pochi passi, quando colse nella semioscurità il familiare bagliore degli occhi rossi. Il suo inseguitore lo aspettava seminascosto dietro un’auto in sosta. Tornò indietro rapido, alla luce della strada principale.

Doveva evitare i luoghi aperti e isolati. Lì sarebbe stato esposto e indifeso. Poteva solo confondersi nella folla e sperare di incunearsi non visto in un anfratto, lì se fosse stato bravo avrebbe fatto perdere le sue tracce.
Vide un pub e s’infilò dentro, sperando di riuscire a sgattaiolare dall’uscita sul retro.
La musica era violenta, drogata, un chitarrista magro e sinuoso come un serpente cantava il suo blues primordiale e bastardo, mentre la band lo accompagnava con suoni rozzi e sferraglianti. Le persone erano addossate le une alle altre, sentiva l’odore acre dei corpi sudati, il suo mento iniziò a tremare. Doveva fuggire subito da lì. Riuscì a intrufolarsi nelle cucine e da lì uscire sul retro. Si ritrovò in un vicolo squallido, poco illuminato, e iniziò a correre. All’inizio si sentì sollevato. Lasciava la ressa del centro per strade molto poco trafficate, silenziose e poco illuminate. Il suono dei suoi piedi era straordinariamente felpato, come a non voler disturbare la pace in cui si trovava. La poca gente che incrociava sembrava non far caso alla sua andatura.
Durò poco. Dopo alcuni minuti, scorse in una traversa laterale una figura indistinta, che sembrava trottare a quattro zampe verso di lui. Si buttò in una corsa disperata, nelle strade silenziose e sconosciute, mentre alle sue orecchie giungeva un ringhio basso, una promessa di crudeltà e violenza. Si trovava ormai in una zona della città a lui ignota. L’asfalto iniziava ad essere danneggiato e sconnesso, l’illuminazione e gli edifici maltenuti, come accade nella periferia degradata. Rischiò di prendere una storta, e allora si tolse rapido i mocassini, riprendendo a correre scalzo.
La strada dinanzi a lui si perdeva nell’oscurità, così prese una stretta viuzza laterale. Urtò contro una sagoma larga e imponente che lo bloccò. Gli giunse con una zaffata l’alito dell’energumeno, sapeva di marciume e bourbon. «Dammi tutto quello che hai, damerino.» si sentì dire, mentre veniva sbattuto contro il muro.
Un lampo verdastro gli brillò nello sguardo, mentre il suo braccio scattava verso il fianco del balordo, che fu spinto indietro dalla mano aperta. Riprese la sua corsa, mentre il teppista si piegava sulle ginocchia, comprimendosi il punto in cui era stato colpito. Il sangue iniziò a zampillare attraverso le dita premute sul fianco.
Continuò a correre, sentiva sempre di più il sudore appiccicargli i vestiti alla pelle.
Oltre la viuzza, uno spettacolo di desolazione lo attendeva. Un ampio terreno incolto, con radi alberi, un grumo verde soffocato dall’asfalto, in cui bivaccavano drogati e clochard.
Quei reietti, repellenti scarti dell’umanità, lo osservarono con curiosità e scherno irrompere sulla scena sudato e scalzo, e cadere ritrovandosi carponi sulla nuda terra. Alcuni fecero il gesto di venirgli incontro.
I suono che emise li bloccò, lasciandoli disorientati e sgomenti. Lo guardarono meglio: li osservava sottecchi con la testa piegata verso il basso, la schiena inarcata e i capelli innaturalmente dritti, come una sparuta criniera. Emise di nuovo quello spaventoso soffio, digrignando i denti, e tutti indietreggiarono, pensando che fosse un pazzo.
Da qualche parte alla sua destra proruppe un ringhio che lo fece voltare di scatto: la figura dagli occhi rossi era là, lo fissava nel buio. Dai contorni della figura ne indovinò la nudità, e fremette al pensiero. Poi, lo sconosciuto si accovacciò.
Restò un attimo immobile, raccogliendo le forze, poi balzò verso di lui, avanzando rapidamente a quattro zampe.
Mentre la figura possente e minacciosa si avvicinava, una coltre di rosso sanguigno calò su tutto ciò che vedeva. L’ultimo pensiero coerente lo abbandonò, e ringhiando saltò a sua volta.

Vincenzo Barone Lumaga