Morte di un giornalista di cronaca nera

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2010 - edizione 9

Il buio era ciò che percepivano i sensi. Una nebbia che colorava di nero e inebriava d’inchiostro. Ma per uno come lui i riscontri oggettivi erano limiti da abbattere, se non con gli occhi, con la fantasia. Qualunque immagine, reale o supposta che fosse, avrebbe colmato l’ignoranza.
Fu così che perseverò, agitando dita schiave di una frenesia ingiustificata dai fatti. L’essenza del suo zelo era il bisogno di vendere l’ignoto a chi lo avrebbe liquidato con l’unico Dio a cui si prostra la società.
Così avanzò finché un qualcosa gli avvinghiò il pomo d’adamo.
Fu un attimo. Un rumore, simile a un’arancia che esplode sotto uno stivale, scacciò la quiete. Poi crebbe un nuovo silenzio e con esso un dolore non localizzato.
L’uomo avrebbe voluto denunciare il suo dramma, sputare quel sangue sulla cui sorgente si era sempre affacciato per mostrarla ai curiosi. Ma non vi riuscì: le corde vocali gli erano state strappate da scheletri nati dal nulla che lo circondava.

Un tambureggiare prese a fare compagnia alla quiete. Non erano le contrazioni delle mascelle dell’uomo a produrlo, bensì il sussurrare di un’entità avviluppata nell’ombra. Una creatura che liberava la sua dialettica al ritmo di una leva di una macchina da scrivere che si abbatte su un rullo di scorrimento: era la sentenza del mostro.
Da quella notte senza tempo l’uomo non avrebbe più cucito le vesti dei suoi benamati assassini sul corpo degli sconosciuti, né avrebbe sciolto misteri intrecciati negli abissi dell’ignoto; sarebbe stato solo, con i mostri cari al suo intelletto: creature abituate a dissanguare gli innocenti, lasciandoli annaspare sotto una luce che divora la loro intimità e la vomita nelle piazze pubbliche.
Da allora in poi i quotidiani sarebbero sembrati oceani privi di acqua, almeno finché il sole non li avesse depurati dall’inganno della notizia.

Matteo Mancini