Thérèse

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2016 - edizione 8

Un inizio di storia banale, l’ora squallida a girar da un caffè all’altro, a sventolare arroganza a testa bassa, toglier il pelucco dalla giacca, contar il tempo sulla panchina, poi il cespuglio smosso, tu, un luccichio svelto, un furetto incapricciato, un sorriso e un occhio rosso, mi scusi, io, posso, violacciocche attorno, non l’avevo notato, incredulo, imbarazzato, mi hai preso la mano, mio, tuo, casa era vicina, andiamo, non sei di qui, piccina... Glicine a grappolo sul portone, mughetti schiusi i tuoi occhietti, nell’atrio il primo bacio, ho frugato con la lingua dall’orecchio alla boccuccia, ho umettato, ho preparato, è scesa una lacrimuccia, è solo un caso, un piccolo sussulto, respira col naso. Al primo piano stringevo il culetto con una mano, l’altra si dibatteva fra le cosce, afferrava e rilasciava, bramava e sbranava le tue labbra mosce, punzecchiava la tua fichetta carnosa, che poi avrei gustato meglio, dischiusa, una pesca pruriginosa. Al secondo si era già dentro, il mio cazzo gonfio, la tua timidezza muta, la mandibola serrata, un calcio sullo zigomo, il rumore di rimbalzo, si è slogata, sembravi assorta e così ho potuto farti mia sulla porta, il gambo, amore mio, questo è il fiorellino che ti ho donato, troppo lungo, troppo a fondo, tanto che non mi sono fermato quando l’hai rigurgitato, scalciavi, scalpitavo, e chiusi gli occhi più dentro mi ficcavo, brava la mia cocca, se continui così ti canterò una filastrocca, era sceso del sangue quando sono uscito dalla tua bocca. Da ciclamino a ciano, così sono andato in cerca di un contatto più profondo, più sincero, e un po’ a quel punto mi sono sentito l’uomo nero...

ti ho afferrato, ti ho leccato, con due dita allargato e poi ancora morso, schiaffeggiato, con che rabbia ho bucato quello spacco rosso, stavo per prendere il coltello, ma poi ci ho ripensato sul più bello, più spingevo e spingevo più il tavolo avanzava per la stanza, e sì che a questo punto, sembrava ormai una danza, quando ho sentito non esserci più resistenza, ti ho raccolto e ci siamo uniti sulla credenza, su, piccola, non singhiozzare, è una scemenza, hai urlato ché stava per diventar una festa, ti ho rotto il vaso sulla testa. Se a una cosa segue un’altra, certo tu dovevi farti scaltra, un pugnetto incerto sul mento, ti ho preso per i capelli e poi è stato un momento... L’ho cacciato grosso e ammaccato, un po’ di riposo, se solo avessi invocato clemenza, con sorpresa e un certo pudore mi sarei ritratto, avrei riflettuto di più sulla tua esistenza, ma ora con te divaricata e il mio cazzo in mano, era una partita ormai andata e bisognava proseguir lontano. Mentre sotto il manto stellato ti porto via, trascinandoti dai piedi, di una cometa sbrodolata una scia, immagino tua madre, disperata, che rimarrà bloccata al ricordo di una mattina, mentre pettinava l’ultima volta, spensierata, i capelli lunghi della sua signorina.

Giulia D'Onofrio