I fiori degli dei

Sotto i fulgidi cieli di Kamur amai un tempo passeggiare, bagnato dall’opaco velo d’una luna a tre quarti e, mentre percorrevo le infinite miglia della strada perduta, ammirai le costellazioni lontane che pulsavano amiche nel buio della notte. All’alba mi rifugiai nel nebuloso mondo dei sogni, sicuro che avrei rivisto il sole esplodere in scintille di sabbia sul suolo rovente del deserto e la sua luce infuocata creare immagini vaghe e tremolanti nell’aria secca e irrespirabile. Nell’ipnosi onirica in cui caddi intravidi miraggi intoccabili ed effimeri ed oscuri presagi d’una vita nascosta oltre le montagne di pietra che s’estendono ad est apparvero fulminei agli occhi lungimiranti della mia mente ricolma d’emozioni. Nel vento sibilante di mezzogiorno, quando non v’era cosa sulla terra riarsa che avesse ombra, ascoltai la voce di Dei scomparsi che mi guidavano, al suono estatico di una musica oscura, verso l’oasi dall’acqua rilucente, in cui, all’alba dei tempi, si immergevano i primi embrioni delle divinità.
Conoscevo le leggende cantate da Azymh lungo la Strada dei Bazar della sperduta città di Yazaph e sapevo che esse erano il frutto di antiche narrazioni orali che venivano tramandate da padre in figlio fin da quando fu eretto il primo muro a Gohr. E, durante le notti dei secoli, quando il silenzio regnava incontrastato nelle buie case delle città e soltanto gli insetti alati si muovevano circospetti fra le fenditure, i racconti avevano subito modifiche e variazioni innumerevoli, poiché è risaputo che cosa detta da cento bocche in cento modi viene espressa. I Testi Antichi, riuniti in tomi voluminosi ornati d’oro cesellato, erano stati riposti in segrete biblioteche custodite nei meandri labirintici di Yazaph, che sorge sull’Altopiano Dorato a nord ovest di Kamur.
E io ricordavo che le storie parlavano dei fiori. L’oasi del lago in cui ogni cosa si riflette si diceva costellata di piante dagli esuberanti aromi e dai profumi esotici e pungenti e le foglie lanceolate e venate avessero il verde dell’Oceano al tramonto. Sull’acqua galleggiavano ramoscelli contorti su cui erano posate stridenti locuste, che ammiccavano ambigue nella calma del meriggio. Palme dagli alti fusti si ergevano con dignitosa imponenza, torreggiando sul piccolo paradiso come fossero montagne accanto a formiche. E, quando le ombre della sera si allungavano sul terreno, ogni rumore veniva inghiottito nel vuoto abissale dell’Eco spenta e solo il remoto fruscio delle fronde, mosse dall’alito degli Dei, si diffondeva fra i sentieri senza nome dell’oasi di Kamur. Infine, alla luce della luna, sbocciavano i fiori dai petali spinosi, multicolori e inebrianti, perché in sé avevano i colori e gli odori d’ogni bocciolo della Terra. A nessuno era dato coglierli, poiché gli aghi nascevano da bulbi velenosissimi e una loro puntura sarebbe stata fatale.

E adesso, durante le ore piccole della notte, ho ancora la visione sfuggente dei fiori degli Dei e la loro intangibilità è molte volte apparsa nel turbinante caos dei miei ricordi. Posso pensare con estremo orrore all’arcano nome con cui essi sono conosciuti nel lontano deserto di Kamur. E’ la lingua ancestrale delle prime popolazioni di Nomadi delle zone desertiche che apparvero in quei luoghi, le stesse che fondarono la città-fortezza di Gohr. Ma tale è il significato che l’accompagna, da non potersi pronunciare né menzionare in uno scritto.
Seppi da un eremita che nello sconosciuto Est, oltre i rocciosi crinali delle Montagne, s’estende una vallata solcata da canyon profondi e tortuosi. Laggiù, nei cunicoli scavati nel terreno pietroso da un antico fiume oggi scomparso - e di cui s’ignora perfino il nome - si cela all’uomo il fervore d’una vita che appartenne a civiltà del passato, dimenticate dal tempo. Nelle notti di plenilunio, al chiaro di luna, uomini dal volto oscuro si recano dalle Montagne di Pietra all’oasi di Kamur e, sotto lo sguardo della Stella di Fuoco, colgono tre fiori dalle spine velenose e, tornati nella Valle dei Canyon, ne fanno unguenti e bevande terapeutiche.
Se all’uomo non è dato cogliere né toccare quei fiori, posso solo credere a una natura divina, pensando alla vita celata oltre le Montagne di Pietra che si ergono a est e se, nelle profonde notti di luna nuova, v’è qualcuno tra loro che si bagna nelle acque del lago dai mille riflessi, le mie supposizioni divengono certezze.
Osservai quella bellezza floreale solo per qualche secondo, ma il suo ricordo è ancora impresso nella mia memoria. Ora, a distanza di molto, molto tempo, avverto la nostalgia di quel giorno lontano e, nella solitudine della mia stanza vuota, sogno ancora della verginità dei fiori degli Dei, di cui non conobbi mai il profumo.

Daniele Imperi