Veglia funebre

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2009 - edizione 8

L'ultimo ad arrivare è il “Vecchio”.
Quando entra nel sotterraneo il suo volto gronda pioggia e dolore. Ma tutti noi portiamo impressa sulla faccia la sua stessa maschera, un drappo funebre che ottunde i sensi e la vista.
Se ne è andato il migliore. Il più coraggioso e amabile, colui per salvare il quale avremmo dato la nostra esistenza. E adesso niente sarà più uguale, senza la luce dell’ombra più oscura.
Mi guardo attorno, siamo al completo; la veglia ha inizio.
Si può mangiare e bere, e mangiare ancora fino a non poterne più, fino allo sfinimento, fino a scoppiare di piacere nel segno del suo ricordo, nel tentativo di alleviare questo enorme dolore.
È la tradizione. La cena è per chi se ne è andato, ma consumata da chi in mestizia resta.
E allora do il segno che s’incominci. E che gli schiavi servano il cibo.

Si spalanca il salone immerso nella penombra, mentre fuori urla il tuono e gronda il diluvio d’acqua gonfia dei riflessi carmini della luna sorta prima dell’avvento delle nubi.
I bambini adesso sono legati alle sedie, esposti nudi, lisci come pomi di frutta acerba. Golosamente li abbraccio uno a uno. D’istinto mi si apre la bocca, i canini scattano con riflessi d’acciaio.
Oh, se tu fossi qui a condividere questo pasto sublime!
E nel tuo ricordo m’inebrio di sangue, di dolore e dei sospiri tiepidi di un cibo così giovane e puro.

Giuseppe Agnoletti