Mohini

Quante cose si possono imparare scaricando un container, molte di più di quante ne si possa apprendere in un'aula universitaria oggi giorno.
Eravamo stati tutta la mattinata con le mani e le natiche gelate, immersi nel ventre oscuro di quel recipiente di merci che avrebbe arricchito i nostri padroni.
Dentro c’eravamo io e Kosala, un ragazzo proveniente da un'isola lontana, con la pelle bruna ed il sorriso di chi ha visto nella vita il mare dei tropici.
Eravamo ormai alla metà del container, non molto stanchi, i pacchi pesavano poco e dentro faceva meno freddo, inoltre, nonostante parlassimo lingue diverse, ci capivamo abbastanza bene da poter raccontarci vicendevolmente.
Così, nel buio del contenitore fatto di lamiera, flettendo i nostri bicipiti, cominciammo a parlare di fatti macabri e misteriosi, io, che sono di Napoli, dissi la mia raccontandogli del rapporto grottesco che il mio popolo ha sempre avuto con la morte, dall’adottare teste di morto fino ad interpellarle in sonno, rituali ormai persi nel tempo, smarriti tra le coltri consunte di un’epoca svanita.
Gli feci immaginare una antica vecchia che si incammina furtiva lungo il quartiere Sanità e discende silenziosamente le tortuose scale del ossario delle Fontanelle, il camposanto che racchiude milioni di teschi ignoti.
La vecchia comincia a sussurrare e a sorridere, parla con una delle teste, sembra conoscerla da anni, e tra la sua faccia rugosa e quel teschio non c’è altro che il tremolante lucore di una candela.
Kosala, dal suo canto, mi raccontò la sua e non sapendolo, mi salvò la vita.

 

Ero andato pochi mesi dopo, spinto da una frenesia ignota che mi rendeva irrequieto e incapace di vivere la mia vita, nel paese del ragazzo, eravamo diventati amici e con me lavoravano altri suoi connazionali, così quando decisero di tornare a casa, li seguii senza indugio.
Passai giorni felici, selvaggi, spensierati, ma i soldi messi da parte stavano sfumando e certo io non mi dimostravo un degno conservatore, bevevo ogni sera in compagnia di splendide ragazze, sperperavo il poco denaro che mi restava, non curandomene certo più di tanto.
In una di quelle sere, in cui ero solo e vagamente sognante, mi incamminai lungo una strada solitaria, le palme intorno a me sembravano allungarsi come dame genuflesse, gigantesche, dalle chiome nere che oscuravano la luna; le stelle, una infinità, facevano eco al rombo del mare richiamando l’ululato di un solingo cane randagio che non riuscivo a vedere, era distante, molto distante, così come la luna splendente sulle ravene acque dell’oceano, inoltre i miei sensi erano intorpiditi dall’alcool, desideravo soltanto camminare, andare lontano, farmi abbracciare dalla notte, senza sapere che le braccia esili della tenebra, spesso non appartengono alla notte, splendida e pallida dama ammantata di velluto, bensì alla sua mesta sorella gemella, Morte, le cui braccia sono infinitamente più gelide, ma non meno soavi nel cingerti.
Avanzavo, senza accorgermene mi mescolavo sempre più con l’oscurità, avanzavo barcollando, avanzavo, morivo, sentendo la brezza tropicale carezzarmi il volto, il dolce suono delle fronde di palma, lo stridio di animali nascosti e osservanti il declino di un essere che non apparteneva alla loro terra, poi vidi di lontano incedere una figura aggraziata, esile, quasi tremolante nell’oscurità, si avvicinava e provavo angoscia, era una donna, le cui lunghe chiome, nell’ombra apparivano come i lembi di una cappa che le cascava sulle spalle.
“Chi sei donna incappucciata?”
Gridai mentre era ancora lontana, ma non lo feci per coraggio, bensì per paura, la mia voce da ubriacone, sguaiata e strascicante, mi aveva fatto riprendere contatto con le cose intorno, infrangendo quell’immagine del tutto simile ad un sogno.
Quando lei si avvicinò mi resi conto che non era incappucciata, le lunghissime chiome, setose e corvine, cingevano ambrate spalle, era una donna bellissima, trentenne, mi sorrideva e tra le braccia aveva un bambino.
Non sembrava molto casta però, qualcosa di malizioso aleggiava lungo il suo volto, qualcosa di stregato percorreva gli occhi tondi ed enormi, velandoli di una liquida crudeltà attraversata da tenui bagliori, inoltre il suo corpo era mezzo scoperto, aveva una veste semplice, ma era tutta aperta sul davanti, svelando parte dei piccoli, bruni seni, e poi il ventre, illuminato dalla pallida luna, che rivelava le fragili, invitanti ossa del bacino, un po’ del fianco terminante in una snella coscia ai cui lati, un piccolo ciuffo di nerissimo pube si intravedeva vagamente, insomma, la piccola mamma smarrita era mezza nuda davanti a me con il bambino in braccio.
“Puoi tenermi il bambino? Altrimenti non riesco a mettermi a posto il vestito?”
Mi disse ciò e nei suoi occhi vidi il luccicare delle onde.
Stavo per tendere le mani inebetito, poi mi fermai, perché non aveva parlato nella sua lingua? Perché una donna cingalese nel suo paese mi rivolgeva la parola in Italiano?
Poi d’un tratto ricordai il racconto di Kosala.
“Al mio paese, spesso, nelle strade solitarie puoi imbatterti in una strega, Mohini è il suo nome, lei è bella, ti apparirà seminuda con un bambino in braccio, poi ti chiederà di tenerle il bambino per riuscire a coprirsi, ma se tu prendi il bambino sei finito!”
Non mi spiegò di preciso cosa ti facesse Mhoini, se ti strappasse il cuore o si trasformasse in qualcosa, ne ci tenevo a saperlo in quella notte, già mi immaginavo apparire zanne vampiriche pronte a squarciarmi il collo, occhi gialli e crudeli, artigli dilanianti, cose da strega insomma.
Ma la Mohini restò immobile di fronte a me, con le braccia tese, porgendomi il bambino, non sembrava infuriata dalla mia attesa, come forse una strega dovrebbe essere in un momento come quello, in cui la vittima tentenna e volge alla scoperta dell’artifizio.
“No aspetta!” le dissi “Tieni pure tu il bambino, te lo aggiusto io il vestito, sai, ho paura che in braccio a me possa piangere!”
La donna non distorse i lineamenti, ne prese ad urlare come una forsennata, non vomitò serpenti, non era nemmeno vagamente indispettita, semplicemente mi sorrise, ero stato astuto, o meglio Kosala mi aveva raccontato la storia giusta quella mattina nel container, e certo non me l’avrebbe raccontata un qualsiasi coglione alla cattedra di lettere e filosofia, la cultura la fanno i popoli e non i libri.
Lo spettro asiatico si rivelò sportivo, attendeva che mettessi a posto le vesti, incedendo nel chiaro di luna con il suo seminudo corpo di dea felina e superba.
Ricordai la similitudine che la parola Mohini aveva con moine in italiano, in fondo la strega, nottetempo, non faceva altro che sedurti con le sue moine, non a caso le sue vittime erano unicamente uomini.
Ma io non le rassettai le vesti, anzi, andandole alle spalle, la scoprii ancor di più, il bambino dormiva, e lei, sembrava non potersene liberare se non dandolo a me.
Scoprii natiche superbe e scolpite nel legno, feci frusciare la veste fino a terra strisciando dietro di lei in un atto dissacrante e satanico: stavo possedendo la Mhoini che voleva uccidermi.

 

Il giorno dopo mi risvegliai a casa, con un orribile mal di testa causato dallo stordimento alcolico, non so come sono tornato nel mio appartamento né tanto meno che fine abbia fatto la donna con il bambino, strega o no che fosse, ma mi piace pensare che ella vaghi ancora nottetempo nella tenebra, seducendo con il suo corpo velatamente svestito, i ritardatari passanti nelle strade solinghe, e con ilare crudeltà penso, che nove mesi dopo quella notte, i bambini siano diventati due.

 

A Kosala
Che realmente mi ha narrato la leggenda

Davide Giannicolo