Il brusìo dei molari

Non aveva mai provato un dolore simile. Piero si premette il cuscino sulla mandibola, rigirandosi nelle lenzuola umide di sudore estivo, fissando i ricami bluastri sul muro disegnati dal chiaro di luna che filtrava dalle tapparelle. Cercò disperatamente di concentrarsi su qualcosa che non fosse quella terrificante pulsazione.
Non poteva dirlo con certezza, ma erano i molari inferiori che gli dolevano, scagliando staffilate vibranti nella sua calotta cranica. Il dolore l’aveva svegliato, trascinandolo fuori da un sogno catramoso fatto di pallidi volti senza bocca che fluttuavano beffardi sui pioppeti di Idrasca.
Non aveva mai sofferto di mal di denti. Se n’era sempre vantato, sfoggiando una dentatura smagliante, immacolata. Era una fortuna, perché era stato dal dentista una sola volta nella sua vita, da bambino, uscendone scosso. Era la freddezza antisettica dello studio che l’aveva tanto impressionato, un luogo bandito ai sentimenti, un regno fatto di dentina, trapani, aspiratori per saliva, odore di ossa bruciate e acciaio chirurgico.
Si alzò dal letto con una bestemmia. Le piastrelle dell’ingresso accolsero i suoi piedi nudi come tenaglie di ghiaccio; entrò nello stanzino buio, cercò tentoni l’interruttore della luce e cominciò a frugare nella scatola dei medicinali. Scavò nell’assortimento di pillole, bustine, flaconi.
Quaranta gocce di Novalgina gli avrebbero ridotto lo stomaco a una poltiglia, ma perlomeno il dolore si sarebbe attenuato. Contò malamente le gocce che cadevano svogliate nella tazzina, avvinghiandosi tenaci al beccuccio; la riempì d’acqua e tracannò il contenuto. Qualcosa si ribellò, si spostò, all’interno della sua bocca.

Raggiunse il bagno camminando con l’andatura ciondolante di un ubriaco. La faccia che lo guardava dall’altra parte dello specchio era un carboncino eseguito da un artista senza talento; due profonde occhiaie spiccavano sul suo volto come mosconi bulbosi in una tazza di latte.
Avvicinò il volto alla superficie riflettente e aprì lentamente le labbra. Un gemito partì dalle profondità del suo diaframma e gli morì strozzato in gola. Non era possibile. Si tastò il molare destro con un dito e lo ritirò immediatamente con un conato. Sotto la superficie del polpastrello aveva sentito qualcosa di soffice, di peloso.
Accese la luce al neon sopra lo specchio e con una profonda sensazione di nausea si infilò due dita in bocca, tirando di lato le guance. L’arcata dentale, nitida e umida alla luce dei venticinque watt, era identica a come l’aveva vista quella mattina mentre la strofinava con lo spazzolino, fatta eccezione per un particolare che in quel momento gli parve ridicolo e terrificante: dai due opposti molari inferiori spuntava un minuscolo ciuffo di peli, cinque millimetri villosi di illogicità. Si passò la lingua su quelle escrescenze pilifere per avere una seconda conferma tattile dal muscolo orale.
“Oh cazzo cazzo cazzo,” fu l’unica cosa che riuscì a mormorare. Si guardò le mani, notando che tremavano con violenza. Poi l’ombra di un’idea attraversò il suo volto, illuminandolo.
“Un sogno!” disse ad alta voce. “Sto sognando, diocristo!”
Si diede un pizzicotto sulla pelle sensibile dell’interno coscia. Dovette ammettere con ripugnanza che non stava peregrinando nel misericordioso regno di Morfeo.
Aveva sentito parlare di ributtanti cisti sottocutanee, piene di capelli, frammenti ossei e persino denti, ma non aveva mai immaginato che le ribellioni dell’organismo umano potessero arrivare a tanto. Prese lo specchio ingrandente per osservare meglio.
“Forse ho visto male, forse mi sono...”
La lanugine nerastra era ancora lì, due ciuffetti scuri composti da una trentina di filamenti che avevano una sconcertante somiglianza coi suoi peli pubici.
“Bastardi.”
Trovò una pinzetta per sopracciglia sulla mensola dello specchio, afferrò i peli che spuntavano dal molare destro e tirò con forza. L’esplosione di dolore gelido all’interno della sua mascella percorse come una scheggia impazzita la parte sinistra del suo corpo, morendo con un’esplosione ovattata nel polpaccio. Quasi crollò per terra. Era come se quel ciuffetto pilifero fosse collegato a un filo di ferro lasciato per ore nell’azoto liquido e poi introdotto chirurgicamente nel molare, trascinato attraverso muscoli, carne e terminazioni nervose per essere collegato a un sistema di tiranti, molle e ingranaggi collocato nel suo polpaccio. Si accasciò sul pavimento aggrappandosi al lavandino.
“Oh Gesù, che male, che male, ahiaaa...”
Due lacrime enormi gli rotolarono sulle guance. Sconvolto, mentre cercava di riacquistare il controllo, sentì il brusio. Era una sorta di nenia, lontana eppure vicina, una voce beffarda, assillante. Una cantilena stonata che non proveniva da alcun punto definito. Cercò di trovare l’origine di quel suono, vagò per la casa lamentandosi; le esplosioni nella sua mandibola si trasformarono in cangianti supernove di dolore, annebbiandogli la vista. Doveva vedere un dentista. Doveva resistere sino al mattino, e quella prospettiva gli sembrò assurda.
Si trascinò in camera, lasciandosi cadere sul letto, la soglia del dolore chilometri alle sue spalle.
Lì, raggomitolato sul materasso, la dissonante cantilena ricominciò più insistente di prima, mentre una pellicola di sudore freddo gli imperlava la fronte. Rimase in ascolto, tirandosi le lenzuola sulla testa come un bambino indifeso, trattenendo il respiro per non fare il minimo rumore. Le parole, dapprima incomprensibili, cominciarono a prendere forma nella sua mente, poco alla volta. Era la voce distorta di un bambino, gracchiante, melliflua e malfatta, un suono emesso da corde vocali suppurate, un vocalizzo prodotto da una gola morta, aria fetida che titillava un’ugola di cartavetro. Si alzò dal letto con una smorfia.
Pippereppetennu...
Pipperepetenusa ‘nusa la patata...
Pippereppettenusa ‘nusa la patata, annusa il pomidoro
Pippereppettenusa ‘nusa la patata, annusa il pomidoro, pipperepettepam!
Cominciò a ghignare, incredulo. Era una filastrocca da conta, uno stupido scioglilingua che da bambino aveva recitato migliaia di volte quando bisognava decidere chi “stava in porta”, chi “stava sotto” a Strega Toccacolore, chi “portava giù” il pallone. Aveva amato quella canzoncina, adorato il suo ritmo, le parole senza senso, ma odiato il cieco affidamento al Caso che si nascondeva dietro di essa.
Cercò di scacciare un pensiero che stava insinuandosi nella sua mente, perché troppo assurdo. Quella tiritera proveniva dall’interno della sua bocca. Sì, era il molare destro che se la cantava. Anzi, se la contava. Rise, una risatina stridula che echeggiò grottesca nel buio della camera. Si portò una mano sotto il mento, premendo con tutta la forza del suo braccio.
Pippereppettennusa...
Raggiunse la finestra e la aprì, inalando aria in rapide boccate convulse; l’afa estiva, satura di umidità, centuplicò il dolore nelle sue fauci, distribuendolo con dovizia nelle gengive. Si affacciò e contemplò Idrasca, l’indifferente accozzaglia di case sbilenche che era il suo paese, avvolta nelle spire di nebbia lanuginosa che si levavano dai campi lontani, sfumando i contorni del reale. Le balle di fieno, incerte nella caligine, sembravano enormi denti tartarosi abbandonati nella campagna da una divinità malata.
Alla prima voce se ne aggiunse una seconda, molto simile. Più bassa, monotona, un gorgoglio demente, un cachinno ripetuto con l’ossessività di un rosario mormorato dalle vecchie del paese. Il molare sinistro.
Fetus in Fetu, Fetus in Fetu, Fetus in Fetu...
“È il dolore, Piero,” si disse. “È questo fottuto mal di denti che ti sta facendo impazzire. Che male, che male, che mal...”
Non poteva resistere sino al mattino. Quel pulsare ovattato, implacabile, gli impediva di pensare; quei lamenti lo motteggiavano disgregando la solida corazza della sua sanità mentale. Mentale o dentale?
Le voci filtrarono nel tessuto molle del palato, carezzarono melliflue il velopendulo danzando sornione sulle mucose per poi fiondarsi subdole nel condotto uditivo, piantandogli unghie infette nelle sinapsi.
Fetus in Fetu, Pipperepettenusa, Fetus in Fetu, ‘nusa la patata...
Si sentì venir meno. Idrasca scomparve, lasciando spazio a un vorticoso turbinio di stelle, tegole, comignoli e steli di granturco rachitici, un melange iridescente del panorama contemplabile dalla finestra. Scivolò all’indietro e con dita insensibili artigliò invano il davanzale. La sua testa urtò violentemente contro la sponda del letto e Piero accolse la sdrucciolevole discesa verso l’oblio come una benedizione. L’ultima cosa che vide prima di affondare in un mare buio fu la faccia butterata della luna, alta e nitida nei cieli di Idrasca, simile a un gigantesco tuorlo d’uovo rancido.

 

Stava nuotando in acque villose che lo tiravano verso un fondale color gengiva da cui non c’era possibilità di ritorno. Soffocava. Agitò le braccia e le gambe in una parodia di stile libero, facendosi strada in una giungla di lana ispida, riemergendo nella realtà con un senso di ostruzione nella gola.
Annaspò e scattò a sedere; tentò di sputare e un fiotto di vomito acido salì e tornò indietro nel suo stomaco, come se un tappo gli impedisse di liberarsi.
Quando vide la lunga massa di peli che fuoriusciva dalla sua bocca, lunga fino al petto, si abbandonò contro il letto sperando di svenire nuovamente. Iniziò a frignare. Erano cresciuti nella sua bocca, i bastardi, invadendogli la trachea.
“Aiutooooo... aiuuu...”
Afferrò con due mani l’enorme appendice barbuta che pendeva dalle labbra e tirò. Doveva farlo. Sentì qualcosa gonfiarsi nei suoi molari inferiori, distruggendoli. Schegge di denti e sangue decorarono la volta umida del suo palato. I peli erano attaccati a due enormi masse che, fuoriuscite dai mandibolari, ora gli riempivano la cavità orale. Sapevano di latte putrido. Estrasse la prima, poi la seconda, divaricando la bocca al limite estremo delle sue possibilità per farle passare. Le labbra si squarciarono. Scagliò i due grumi sul pavimento, lontano da sé, stringendo le palpebre per non vedere.
Finalmente aveva la gola libera. L’aria umida e ferruginosa di sangue gli parve la migliore che avesse mai respirato. Agitò i piedi in un raptus convulso, disegnando sul pavimento un’opera astratta fatta di peli, sangue, avorio e secrezioni corporali. Una piacevole sensazione caldo umida nella regione pubica condusse la sua mente devastata ai giorni spensierati dell’enuresi infantile.
Il dolore era cessato, ma, quando socchiuse gli occhi, pensò che avrebbe affrontato mille notti di quell’inferno pulsante piuttosto che contemplare per un altro secondo le due cose che sussultavano sul parquet.
Erano dei bozzoli traslucidi, gialli e neri, simili alla schiena di una dorifora, guarniti dal ciuffo di peli cresciuto nei suoi denti. All’interno s’intravedevano due masse confuse, embrioni alieni e impossibili.
E cantavano, e mentre cantavano i due coaguli placentali crescevano, gonfiandosi come palloncini riempiti di gas venefici.
Fetus in Fetu, Pipperepettenusa, Fetus in Fetu, pipperepettepam!
Poi, all’improvviso, i due bozzoli si ruppero emettendo il rumore di una pentola a pressione, dividendosi in quattro sezioni simili ai petali di un fiore cresciuto su un pianeta extrasolare.
I due esseri strisciarono fuori dal loro utero canceroso, due feti umidi, rosacei. Avevano la pelle come cotenna bollita di maiale. Collegati da una protuberanza epidermica che partiva dai crani spropositati, ridevano. Gli umori verdastri che colavano dalle loro orbite vuote stillavano sul pavimento con un suono viscoso. Quando mise a fuoco i loro volti, la mente di Piero balzò verso gli sconfinati vuoti del delirio.
Dietro i lineamenti contorti dalla deformità non poté fare a meno di notare che quegli abbozzi malevoli avevano il suo stesso viso. Entrambi sorridevano gioiosamente, esponendo una dentatura pressoché perfetta.
Le due creature cominciarono ad avanzare, tendendo gli arti focomelici verso di lui; in quel momento chiudere gli occhi e gridare gli parve l’unica cosa sensata in una notte di follia.
La luna indifferente contemplò la macabra danza dei trigemini nella stanza da letto, il loro abbraccio conciliatorio, la detestabile e affascinante fusione di carne, membrane umide e organi.

 

Il giorno seguente due contadini rinsecchiti che dissodavano una terra dura come cartilagine scorsero una mastodontica massa gelatinosa tempestata di occhi color placca avanzare nei campi, muovendosi su appendici cigliate simili a cordoni ombelicali purulenti. La videro arrampicarsi su un platano col movimento bizzarro di una medusa. Fuggirono. Quella notte, mordendosi i calli davanti a un bicchiere di grappa, attribuirono la visione al vino e al sole.
Le sparizioni di cani, in principio, e poi di vacche, cavalli e scrofe parvero poca cosa rispetto al suono che cominciò a udirsi di notte, un rombo che faceva tremare i muri delle case e piangere gli infanti, una vibrazione poderosa proveniente dai boschetti, una cacofonica eufonia di molari colossali che sfregavano nei pioppeti bui, riecheggiando nella sterile e desolata campagna notturna di Idrasca.

Luigi Musolino