6

Guglielmo si sveglia in una stanza d’ospedale. Cerca il cellulare nella tasca della giacca, appoggiata allo schienale della sedia, ma non lo trova. Sbircia verso il corridoio e scorge un orologio a muro. Le venti e quarantaquattro.
Gli scappa tantissimo la pipì e non riesce a ricordare il motivo della sua degenza, ma gli pare di stare bene. Si guarda in giro. Gli altri letti sono vuoti. Il silenzio è rotto dai rumori ospedalieri: le ruote di un letto, il carrello delle stoviglie. In lontananza c’è una televisione accesa.
Si alza, per andare al bagno, che immagina trovarsi nella piccola anticamera della sua stanza. Prova a camminare e si sente in perfetta forma; addirittura felice. Cosa mai gli può essere successo? Si sente il basso ventre scoppiare. Decide che quando tornerà nella stanza chiamerà un’infermiera.
Mentre fa pipì, dirigendo il getto verso la superficie dell’acqua per fare meno rumore possibile, riassume meccanicamente i suoi dati personali. Nome, cognome, età, indirizzo. Si ricorda tutto.
Tutto tranne il perché si trova in ospedale.
Rientrando in stanza intravede un infermiere chino sulla sua giacca. Sta per chiedergli qualcosa, ma l’altro trasale, gli dà uno spintone ed esce di corsa dalla stanza, con il camice che sventola come un mantello.
Guglielmo si blocca, duro come un baccalà, e in pochi istanti si ricorda il motivo di quella gioia.

Si precipita verso la giacca, infila le mani in tutte le tasche.
- Merda! - dice ad alta voce e si precipita di nuovo fuori dalla stanza, gridando.
Riesce a scorgere il camice bianco che si allontana, velocemente. L’altro si volta, ma sembra non accorgersi d’essere stato scoperto. In ogni caso accelera il passo, mentre Guglielmo comincia a correre. Non gli importa se è scalzo e ha addosso un pigiama azzurro a righe. Si sente scoppiare di rabbia i muscoli, l’aria pompare nei polmoni.
- Bastardo! - grugnisce tra i denti. Ma l’altro è già dentro l’ascensore e le porte si stanno chiudendo.
Guglielmo si butta per le scale come una valanga. Cade due volte. La seconda vede l’unghia dell’alluce schizzare via, schiantata dal corrimano. Arriva al pianterreno e si prepara. Ce l’ha fatta, è arrivato prima dell’ascensore e deve solo aspettare che le porte si aprano per spaccare la faccia a quel ladro e riprendersi il portafoglio.
L’ascensore invece non si ferma e il ghigno di vendetta gli cola dal mento come la bava che ha agli angoli della bocca. Il seminterrato!
Si ributta per le scale come un folle e non vede la porta a vetro che dà verso l’uscita. Si schianta di faccia, la porta si crepa appena. Si rialza e s’accorge che riesce a tirar fuori la lingua dalla bocca pur tenendola chiusa. Poco male, pensa. Andrà dal dentista. Usa il sangue per ingoiare i denti. Apre la porta e si butta fuori, nell’aria fredda della notte. Due infermiere stanno entrando, ma non lo degnano di uno sguardo.
Meglio così pensa, mentre si lancia all’inseguimento.
L’altro cammina con una certa fretta, ma non corre. Lui sì. Un uomo in pigiama azzurro che insegue un uomo in camice bianco. Sembrano la parodia di una barzelletta.
Guglielmo ci mette pochi metri a raggiungerlo. L’altro ha un sorriso che va da un orecchio all’altro e sembra agitato. Sta per fermarlo, ma lo vede entrare in un bar e capisce cosa deve fare. Sa che una denuncia sarebbe inutile, meglio arrangiarsi. Lo aspetta fuori, tenendo in mano un mattoncino di porfido che ha trovato lì vicino. Lo osserva appoggiato a un albero, nel buio, aldilà della vetrata. L’altro prende un caffè, tira fuori dalla tasca del camice il suo portafoglio e sbircia. Poi ride di nuovo.
La bocca spaccata di Guglielmo e il suo alluce pulsano come impazziti, per terra si sta raccogliendo già una piccola pozza di sangue. Eppure, appena l’infermiere esce dalla porta, riesce ugualmente a scaricare tutta la sua rabbia nel primo colpo.
Poi picchia, e picchia, e picchia, fino a che il porfido diventa così viscido da scivolare ad ogni colpo e gli schizzi lo hanno quasi accecato.
È fortunato. Non passa nessuno. Dal bar nessuno si è accorto di niente. Le automobili passano senza rallentare. Però deve muoversi.
Si pulisce le mani sul pigiama e tira fuori il portafoglio, infila sicuro la mano nello scomparto di mezzo e sfila la ricevuta. Sei! Ha fatto sei! Non vede l’ora di correre a casa ad accendere il televideo, per leggere le quote. Milioni di euro, milioni di euro, milioni di euro, continua a pensare, mentre si alza e corre via. Scivola sulla pozza del suo stesso sangue e finisce in mezzo alla strada.
Si sveglia in una stanza d’ospedale. Cerca il cellulare nella tasca della giacca, appoggiata allo schienale della sedia, ma non lo trova. Sbircia verso il corridoio e scorge un orologio a muro. Le venti e quarantaquattro.

Raffaele Serafini