L'ultima malattia

Milo giaceva sdraiato sull’asfalto, accanto ad un bidone dell’immondizia in un vicolo di periferia, uno dei tanti budelli dimenticati dalla gente per bene dove topi grassi danno la caccia a gatti denutriti e i retrobottega dei ristoranti cinesi sono tutti un odoraccio di pesce andato a male. Era un eccellente avvocato penalista Milo, il suo atteggiamento presuntuoso ma garbato lo aveva reso famoso nel reame giuridico della Grande Mela, il suo sguardo preciso e profondo aveva affascinato parecchie donne nei break alla tavola calda, dentro ascensori e durante le gli incolonnamenti davanti ai semafori. Ora i suoi occhi semichiusi e le palpebre pallide assomigliavano due conchiglie dimenticate sul bagnasciuga. Respirava a stento, emettendo rantoli catarrosi, e la leggera brezza che soffiava nello stretto vicolo gli graffiava la pelle del viso in sottili tagli arrossati.
Indossava ancora gli abiti scelti per la cena a casa del signor Smith, la serata che gli avrebbe cambiato la vita. Un balzo in avanti di tutto rispetto. Si trattava dell’assunzione in uno dei più autorevoli studi legali di Manhattan; segretaria personale, colazione sulla scrivania alle ore 7,30 tutte le sante mattine, sabato festivo e seimila dollaroni fruscianti ogni quindici del mese. Col cazzo che si sarebbe lasciato perdere un’occasione del genere! Aveva optato per un completo grigio fumo, acquistato in una boutique italiana griffata Valentino, scarpe smaltate Gucci e camicia di alta sartoria senza dimenticare gemelli d’oro bianco ai polsini. Un bel pacco da duemilacinquecento dollari, ma ne valeva la pena. Questi latini ne avevano di gusto in fatto di stile! Si era fatto accompagnare da un amico con la sua Porsche nuova di zecca e fece ingresso nell’attico del residence Smith alle diciannove in punto. Seratina piuttosto soft, long drink e tartine a volontà.

Tra il miscuglio di invitati, tutti in doppio petto e discorsi repubblicani, spiccava un personaggio alquanto particolare, una sorta di cabarettista orientale, vietnamita per la precisione, convinto di saper eseguire alla grande un paio di giochini di prestigio vecchi come il cucco. Misteri dell’oriente li chiamava. Cacchiate comuniste gli aveva risposto mentalmente Milo. Nonostante il vietcong in ciabatte e lustrini la serata era andata via una meraviglia, un accordo sulla parola con il signor Smith e il gesticolare patetico del cinese (a detta di Milo erano tutti uguali cinesi, giapponesi, cambogiani... figurarsi i vietnamiti) che smanettava con medaglioni e bastoncini di bambù, ipotizzando una maledizione per chi non credesse fino in fondo alla magia dell’oriente. Un gigantesco avvocato di Wall Street lo aveva cacciato a caldi nel di dietro, accompagnato da applausi e risa compiaciute della combriccola.
Poi un’altra serie di cocktail e infine il vuoto.
Milo non ricordava nulla se non l’asfalto umido sul quale sedeva, ultima pellicola di realtà prima di precipitare all’inferno. Era smagrito a vista d’occhio, indossava la giacca di Valentino da cinquecento dollari come un manichino addobbato con abiti di troppe taglie più grandi, una sorta di scheletro rinsecchito di un nostromo vestito della sua divisa blu da cerimonia aggrappato al timone di un vascello fantasma. Le gambe distese percorse da fremiti incontrollati, come i nervi ancora fumanti di un condannato a morte pochi secondi dopo la sedia elettrica. Riusciva appena ad aprire gli occhi, scrutando il mondo con occhi vacui e asciutti come se fosse stato catapultato sotto un cielo alieno. Con il trascorrere del tempo riaffioravano nella sua mente ricordi fumosi, tra drink alcolici e vicoli schiariti dalle prime luci del giorno. L’alba in città è differente che da qualsiasi altra parte del mondo, il senso di pace ti soggioga e ti culla offrendoti una visione leggiadra della sozza realtà che subisci tutti i giorni; il traffico e il rumore e i milioni di odori che si accavallano e si mescolano avvelenandoti l’anima. E’ un’altra storia quella che vivi in quei minuti, quando il sole ti sta avvisando che fra poco toccherà a lui, quando l’aria secca della notte di città lascia il posto a quella piccante del mattino e pare quasi che sia più sana e pulita. I giochi d’ombra dei palazzi e delle case, le strade del colore dell’opale, qualche bottegaio che va al lavoro a bordo del fedele camioncino, un paio di pigri pullman che pellegrinano di fermata in fermata, luci dietro alle serrande ancora abbassate dei caffè. E quando finalmente il sole inizia a riflettere sui parabrezza delle auto addormentate, il rammarico di vivere immersi in quella giungla spodesta quel godere immenso di libertà. Probabilmente Milo aveva percepito quelle sensazioni per il semplice motivo che tutte le mattine, all’alba, godeva di tutto questo. Era un uomo sensibile per quel genere di cose. Nelle ore trascorse nella penombra di quel mattino, invece, aveva barcollato come un pazzo ubriaco in viaggi di eroina, senza un minimo equilibrio e meta.
Poi aveva iniziato a perdere pezzi.
Queste antiche maledizioni vietnamite troppo facilmente sottovalutate...
Il poco che restava delle sue labbra penzolava dalla bocca come una lumaca spappolata, reduci da un incontro ravvicinato con il pugno chiuso di un barbone corpulento e terrorizzato dal pensiero che al mondo potesse esistere qualcuno messo peggio di lui. Aveva perso tre dita della mano destra, lasciate probabilmente sul bordo affilato di qualche bidone dell’immondizia (per quanto potesse risultare tagliente un bidone) o una grondaia mal fissata al muro. Sicuramente durante un ondeggiamento particolarmente accentuato. Poi si era grattato la testa, un gesto che compie una persona su tre ogni secondo in tutto il Mondo, e una spessa scorza di cuoio capelluto gli era rimasta tra le dita della mano, quella integra, e lì ancora si trova circondata da mezza dozzina di mosche festanti che non avevano trovato posto nelle altre succulenti zone scoperte di Milo. L’orecchio sinistro invece l’aveva lasciato contro il vetro laterale di una Ford malandata parcheggiata lungo un viottolo. Il proprietario dell’auto, il giorno dopo, avrebbe scoperto un miscuglio di cartilagine e sangue spiaccicato sul cristallo dal lato del guidatore.
Riusciva tuttavia a rimanere sveglio in una sorta di apnea mentale come se il sangue e l’ossigeno dentro di lui avessero deciso di rallentare, se ne stava accasciato al suolo in un intreccio pulsante ed inerme, senza provare alcun dolore minimamente associabile ad uno dei qualsiasi dei terribili traumi che aveva subito. Fissava incredulo i moncherini delle dita aggrappati alla mano, ondeggiandola lentamente nell’aria come una futura sposa che ammira l’anello appena regalatole dal fidanzato. L’altra mano reggeva ancora capelli e cuoio capelluto sanguinolento, le dita artigliate come le zampe immobili di un granchio morto sul bagnasciuga. L’unica spiegazione decente che il suo cervello riuscisse a ragionare era quella di un pacco postale, pieno di vasetti per sottaceti contenenti cervella e frattaglie, con un adesivo recante la scritta FRAGILE. Qualche passante gli aveva concesso un’occhiata schifata, alzando gli occhi al cielo e provando ad immaginare quale droga sintetica potesse ridurre un uomo in quello stato e gli aveva lanciato qualche spicciolo come si usava fare con i mendicanti. Uno di questi era rimbalzato sulla sua fronte, provocandogli una profonda fessura nel cranio e uno spesso rivolo di sangue nero che aveva faticato non poco a farsi strada tre le pieghe della fronte. Anche il sangue aveva subito il trattamento vietnamita.
Per un istante un fulmine gli aveva attraversato il cranio, qualcosa come l’istinto di sopravvivenza, focalizzando la speranza che qualcuno di quei cittadini modello gli concedesse qualcosa in più che tondini di metallo in faccia. Magari un passaggio al pronto soccorso, che ne dite? Ora, mentre anche quell’ultima iniezione di ragione si andava dissolvendosi assieme alle sue cellule cerebrali, desiderava soltanto che un vaso mal posizionato su un balcone sopra di lui potesse scivolare di sotto per un colpo di vento e sfondargli il cranio. Probabilmente era sufficiente una cagata di piccione per ottenere lo stesso effetto. L’aria che respirava gli bruciava nei polmoni. Ripensava all’illusionista vietnamita nella sua tunica giallo ocra e le carte infuocate e gli spilloni infilati negli occhi e nella lingua, ricordava come gli altri invitati lo deridevano mentre tentava di sorprenderli con i suoi fuochi d’artificio in miniatura. Milo non aveva riso né lo aveva canzonato, si era limitato a fissarlo negli occhi intimandogli di finirla con quelle stronzate da comunista, quello non era un posto per larve sociali come lui e si era chiesto come il signor Smith avesse permesso tutto ciò. Lo aveva disprezzato con un’occhiata, ecco che cosa aveva fatto, continuando ad ingurgitare un martini e tonica dietro l’altro.
E la maledizione era caduta sui poveri di spirito.

 

Fissava il vuoto, nel tentativo di riordinare il film della serata trascorsa in compagnia dei migliori avvocati di NewYork, quando un cane randagio gli si avvicinò odorandogli le scarpe di marca. Milo tentò di ritirarsi senza riuscire a spostarsi più di qualche misero centimetro dal naso vibrante del cane. Il desiderio di morire lo abbandonò. Tentò di urlare qualcosa aveva la bocca serrata e la lingua una melmosa poltiglia rosa. Si rassegnò, sperando di non provare troppo dolore.
Si trattava di un meticcio di media taglia, il pelo di un colore vicino al marrone, escluse un paio di chiazze bianche sparse sul muso. Aveva la bava alla bocca dovuta probabilmente alla fame.
Il cane compì mezzo giro attorno al corpo di Milo come per studiarne eventuali reazioni, poi gli addentò il polpaccio e Milo percepì un debole tremolio alla tibia, come se gliel’avessero colpita debolmente con un martello rivestito di gomma, di quelli che si utilizzano nelle officine. Osservava affascinato i denti dell’animale affondare nelle sue carni, mai aveva pensato che un uomo potesse vivere lucidamente una scena del genere su se stesso e si stupiva della quasi totale assenza di sangue se non per qualche goccia grumosa, depositata attorno alla voragine creata dalla fame del cane. Poi la bestia iniziò a guaire abbassando le orecchie e allontanandosi con la coda tra le gambe, le fauci ancora impregnate di carne umana. Milo tentò di sollevarsi un poco ma la schiena protestò in preoccupanti scricchiolii e dovette desistere. Guardò il cane che procedeva barcollando verso la strada principale, sparendo dietro l’angolo. Se Milo fosse riuscito a sollevarsi dalla posizione supina che teneva, avrebbe visto che dentro il suo polpaccio erano abbandonati una manciata di denti giallastri e mezza lingua porosa e il proprietario di quei resti canini stava esplodendo dall’interno, appena fuori dalla sua visuale, riverso sull’asfalto nero di una qualsiasi strada di New York City.

 

Il sole faceva capolino tra i palazzi grigi mentre il traffico colmava ogni spazio libero. I clacson delle vetture rimbalzavano come palline impazzite in un flipper immenso come una città. I timpani di Milo erano scoppiati da un bel pezzo come le pupille del resto, sciolte dal riverbero della luce del giorno. Quell’uomo che doveva scalare la speciale classifica degli avvocati di Manhattan giaceva sdraiato, immobile, accanto a uno dei tanti bidoni dell’immondizia sparsi a milioni nei meandri della metropoli, simboli snobbati della civiltà consumistica.

 

Un paio di addetti alla raccolta rifiuti se la contavano allegramente nelle tute verdi e berretti con la visiera, sbraitando a turno i personali punti di vista sulla partita degli Yankees della sera prima. Uno reggeva una Pall Mall tra le labbra, l’altro una Bud in bottiglia. Lo sbevazzone conosceva il regolamento ma se ne infischiava allegramente e trincava sul posto di lavoro. E al diavolo la burocrazia. Si avvicinavano al bidone dell’immondizia che aveva accompagnato Milo nella sua spaesata passeggiata verso la morte. Quello con la sigaretta si sporse sul corpo di Milo, la cenere incolonnata sulla punta della Pall Mall che vibrava nell’aria già tiepida e colma di smog, invitando il collega a venire a vedere quant’era messo male quel poveraccio. Non diede peso alle mosche morte tutt’attorno. L’altro, ammazzando la birra, gli rispose che ne aveva le scatole piene di barboni e tossichelli. Quello con la sigaretta in bocca non si accorse che milioni di particelle virali gli si infilavano nelle narici invadendogli gli organi, proprio come era successo al meticcio.
E la sera, mentre si spazzolava i denti dopo aver cenato, le gengive gli si squarciarono ma senza sanguinare. Solo qualche grumo nerastro appiccicato ai denti curati.

Marco Cattarulla