Il roccolo

«Sto morendo?»
«Sì, mia regina.»
«Temevo queste parole, anche se il vostro silenzio era altrettanto eloquente.»
«Ogni vita è destinata a trascorrere: muoiono gli alberi del bosco, muoiono gli animali e gli uomini. Persino le rocce delle montagne sono consumate dal tempo.»
«Sono parole sagge, ma è la mia vita. L’ombra della morte cancellerà per sempre quello che io sono.»
«Sì.»
«Mio buon mago, le vostre magie possono fare qualche cosa?»
«Ahimè, neppure le mie arti magiche possono fermare l’ineluttabilità della morte.»
«Oh...!»
«Tuttavia, potremo ingannarla la morte. Guardate questo segno, che ho scoperto durante i miei viaggi: è una croce con quattro bracci uguali, all’estremità di ogni braccio è rappresentata una mano. Le mani dei due bracci verticali sono orientate nel senso in cui avanzano le lancette dei nostri orologi, come a voler seguire il corso del tempo. Sono come le mani di un bambino che, ruotando nell’acqua, creano un mulinello. Le mani dei due bracci orizzontali sono orientate in senso opposto, come a voler fermare il movimento, quello dell’acqua e quello del tempo. Con questo segno si può fermare il tempo, sceglietelo come vostro stemma. Fate costruire un castello e ponete le vostre insegne su ogni porta. Fate scolpire il simbolo nella cornice di ogni finestra, dalle grandi vetrate delle sale d’onore alle più piccole bifore delle torri. Per voi, in quelle stanze, il tempo non passerà.»
«Ed il giardino? Sapete quanto io ami i giardini.»
«Fate forgiare il simbolo nel ferro dei cancelli, fatelo incidere sulle pietre cantonali e sulle rocce delle sorgenti, anche nel giardino, per voi, il tempo si fermerà. Ma badate, mai, per nessun motivo, potrete più abbandonare quei luoghi o l’incantesimo sarà spezzato.»
«E voi?»
«Verrò a farvi visita nel giardino, mia regina. Leggeremo insieme i libri che tanto vi piacciono.»
«Così sarà, mio dolce amico.»
Il mago vestiva un lungo mantello nero, con il cappuccio alzato, che lo copriva sino ai piedi. Solo si intravedevano le punte degli stivali e gli speroni da cavaliere. A tratti il mantello, aprendosi, rivelava un’armatura di ferro ed argento sbalzato. Portava una pesante spada e pugnali da combattimento che rivelavano la sua appartenenza alla casta dei maghi guerrieri. A dispetto di quelle armi, era gentile e dolce. Si inchinò profondamente e sfiorò con le labbra la mano della regina.

«Ho visto la vostra armatura risplendere alla luce della luna!»
«Sì, mia regina.»
Il mago portava il mantello nero con il cappuccio alzato e si muoveva lentamente. Seguì la regina mentre si avvicinava e constatò quanto fosse bella, rimasta immutata in tutti quegli anni.
«Sono contenta che siate tornato a trovarmi, è così lunga l’eternità in questo luogo. Leggete!»
Le mani affusolate e candide della regina porsero al mago un libro, rilegato in marocchino rosso.
«Tu hai confuso il giorno e la notte in un tuo sguardo./ Tu sei il sole e la luna, stelle danzano, prigioniere, tra i tuoi capelli./ Tu sei la regina fata discesa a me dal suo regno incantato...»
«Leggete ancora!»
«Sto morendo...»
Il mago si abbassò il cappuccio rivelando il suo aspetto. Il volto non era più quello di un giovane, ma quello di un vecchio. La pelle era pallida e rugosa, segnata dalle cicatrici di molte battaglie. I capelli, lunghi e grigi, erano raccolti in un codino a treccia. La barba candida gli copriva le guance ed incorniciava la bocca che non sorrideva più, ma aveva lineamenti duri e la piega, amara, della consapevolezza di chi ha vissuto a lungo e conosciuto le ingiustizie ed i dolori del mondo.
Gli occhi della regina si riempirono di lacrime.
«Mio buon amico, potevate fare la magia del tempo una sola volta. Ho visto le vostre carte ed i progetti del castello che intendevate farvi costruire.»
«Sì, una volta sola.»
«E l’avete donata a me. Perché?»
«Io vi amo, mia regina.»
«Ed avete aspettato tutti questi secoli per dirmelo?»
«Mi piaceva incontrarvi qui, nel giardino, e leggere con voi.»
«Mi amate e non mi avete mai toccata, anche se desideravate farlo?»
«Sì.»
La regina si avvicinò al mago e gli sfiorò il volto con le mani.
«Anche io vi amo. Vi amo per quello che avete fatto per me, ma soprattutto per quello che siete stato per me, per la vostra gentilezza, per la dolcezza e per la vostra presenza accanto a me in tutti questi anni.»
La regina guardò il mago negli occhi e si accorse che quegli occhi non erano cambiati, erano ancora accesi e vividi, come quelli del giovane cavaliere che si era inchinato di fronte a lei tanti anni prima. Anche le labbra non erano cambiate, erano morbide e calde, appassionate, mentre si posavano sulle sue e si schiudevano, lasciando che le loro lingue si trovassero.
Allora tutto il giardino ebbe come un fremito, un’onda leggera ed invisibile che fece stormire le fronde degli alberi secolari, fece increspare le acque della grande fontana, punteggiata di ninfee, salì sulle pendici della collina, fino alle porte del castello, che stava più in alto. Poi il fremito si trasformò in un lamento mesto che si perdeva tra i merli delle torri.
«Ci sono altri, qui?» domandò il mago.
«Sì.» rispose la regina «Le anime di tutte le persone che nel corso di questi secoli hanno abitato questa dimora. Persone che in questi luoghi hanno vissuto, amato, lottato e qui sono morte. Le loro anime rimangono qui, legate dalla malia dei vostri segni... come uccelli di passo, prigionieri nel roccolo del cacciatore.»
Allora il mago si voltò ad ascoltare la paura, il dolore di quelle anime che non riuscivano a trovare la loro libertà.
«Abbiamo sbagliato tutti e due.» disse la regina «Abbiamo pensato che il destino di uomini e cose potesse essere cambiato, ma non è giusto che sia così.»
«Sì.» rispose il mago «Questa prigionia finirà con noi.»
Il mago si tolse il mantello, posò la sua spada e si sfilò i guanti. All’anulare della mano destra brillava un anello, simbolo del suo potere. Posò anche quello. Sentì la mano della regina, morbida e calda, scivolare nella sua e stringerla.
Il senso di attesa delle anime era diventato palpabile: presto il tempo avrebbe ripreso a scorrere e l’incantesimo sarebbe finito.
Le colline intorno si stendevano verdeggianti, uomini e donne le abitavano trascorrendo la loro vita terrena.
Nessuno dei due si voltò indietro a guardare l’imponente mole del castello, ma si guardarono l’un l’altra mentre, per mano, varcavano il cancello del giardino.

 

«Aria, finalmente!»
Luisa sporge dalla finestra il suo corpo atletico e spinge i grandi scuri di legno della finestra. Un fiotto di luce vivida invade il grande salone, appena mosso dal tremolare dell’ombra delle foglie degli alberi secolari. L’Audi famigliare è parcheggiata poco più in là, appena sotto i grandi cancelli metallici, che striano con la loro ombra scura la carrozzeria argentea. Il vano bagagli posteriore è ingombro di valige.
Lei si volta rapida quando sente dei piccoli passi frettolosi avvicinarsi alle sue spalle.
«E’ splendidissimo!» cinguetta la sua figlia minore, con la testa folta di riccioli.
«E’ superfigo!» le fa eco il fratellino, che ha due anni più di lei e fa l’ometto.
Luisa stringe i suoi figli con un abbraccio ed accarezza loro i capelli. E’ così intenta a guardarli con l’ammirazione e l’amore di una madre che non si accorge del fremito, come un’onda leggera, che sembra muovere l’aria del grande salone, si diffonde sino alle pareti, rende tremolanti i damaschi preziosi delle tappezzerie, appanna i colori degli affreschi che decorano le nicchie, sormontate da strani fregi a forma di croce, poi sembra svanire...

Magda L.