La bonifica

27 gennaio 1927
Oggi so per certo che le cose stanno cambiando. Se prima lo percepivo soltanto, ora lo vedo e lo odo. Ringrazio padre Giovanni che mi ha insegnato a scrivere ed a leggere quel tanto che basta da poter mettere su di un pezzo di carta tutto ciò che penso. Spero con il cuore che questa mia agenda arrivi a destinazione.
Oggi li ho rivisti. È raro che si presentino a noi quando il sole ancora non è sceso. O meglio, è raro che si facciano vedere, che non si nascondano. Li ho visti poco prima del tramonto, prima che calasse il sole. Io stavo tornando dal pollaio, e li ho osservati mentre guardavano verso nord. Solo un istante, però, poi sono scomparsi quando si è alzata la nebbia. Forse hanno già sentito l’arrivo delle macchine e dei bonificatori inviati dal Duce per liberarci dal Pantano della Morte. Quelli hanno detto che spazzeranno via la malaria, hanno detto che ci toglieranno la palude, e che lo faranno per il nostro bene, perché hanno cara la nostra vita e quella dei senza casa del nord. Non capiscono nulla.
Io ho visto i morti. Tutti noi di Piscinara li abbiamo visti, e li vedremo sempre, finchè saremo qui. Anche mio padre, quando scende nel pantano col cavallo per portare al pascolo le bestie, li vede sempre. Al mattino, però, si nascondono, sanno che non possono morderci con la luce del sole. O forse, molto più semplicemente, non vogliono. Difatti nessuno di noi esce di notte, e, quando si resta in casa, è meglio spegnere le luci, poiché potrebbero anche infastidirli. O attirarli.
Noi tutti li temiamo, ma li lasciamo in pace. Come si dice... li rispettiamo. La palude è la loro terra, la loro casa, e nessuno può portargliela via. Ci permettono di pascere il nostro bestiame, di coltivare il riso e il cotone, che ci danno quel denaro che basta per non schiattare. Noi diamo loro la carne, almeno tre o quattro bufale al mese, a seconda delle loro richieste, per saziare la loro fame. Perché loro hanno sempre fame.
Oramai, però, questo non basta più. Sono tormentati, hanno paura, temono che i coloni gli porteranno via la terra e, quel che è peggio, credono che sia stata tutta colpa nostra. Per questo hanno preso Luca, il figlio di Piero Mariani che ora è rimasto solo con il piccolo Erminio, e poi anche Adele, Marzia, Samuele e Goffredo. Se li sono portati via, come se fossero una sorta di tributo. Povero il signor Mariani, già sa che non rivedrà più suo figlio, così come gli altri non rivedranno le loro mogli, i loro figli o le loro madri...

Ci sono zone a Piscinara dove vivono le zanzare. Nascono dai corpi dei morti o dai pozzi del diavolo e pascono la loro progenie per tutta la palude, in cerca di cibo e sangue. Non mordono gli animali perché pare che preferiscano solo il nostro, di sangue. L’estate, col caldo e il sole fortissimo, la palude diventa un vero pullulare di tali insetti, per questo noi ce ne andiamo via, lasciamo le lestre e portiamo via le bestie con tutto quanto il raccolto e andiamo in montagna, dove mio padre possiede un altro modesto appezzamento con un piccolo orto e qualche ettaro d’ulivi.
Quando la zanzara ti punge, c’è ben poco da fare. Chi viene morso cade vittima di una fortissima febbre, suda, trema come se fosse preda di violente e feroci convulsioni e, se è fortunato, muore nell’arco di qualche giorno. Io l’ho visto accadere, anche più di una volta, e so bene che è una cosa orribile! Quegli esseri figli del demonio non risparmiano nessuno, non fanno distinzione tra uomini, donne o fanciulli.
Non esiste cura alla malaria, per questo noi a Piscinara bruciamo i morti infettati. Li poniamo su una piccola catasta di legna oliata, li leghiamo bene e poi appicchiamo il fuoco. Perché chi viene punto, lo dovete sapere, una volta che muore a causa della febbre, durante la notte si trasforma. Diventa, dunque, uno di loro. Un morto della palude... e farà del tutto per raggiungere i suoi compagni defunti, e nulla, davvero nulla, riuscirà a fermarlo.

 

***

 

20 febbraio 1927
Scrivo soltanto poche righe su questa agendina poiché tra poco sarò già lontano. La lascerò al signor Mariani che conosce bene il responsabile della bonifica, e farà in modo di informarlo al posto mio. Io, ora, ho ben poco tempo per farlo.
Gli addetti alla bonifica sono arrivati poche ora fa. Stamattina ho visto la nebbia diradarsi e i furgoni passare, e poi i grandi mezzi col carro agganciato dietro. Erano carichi di grossi tubi di ferro e macchinari. Tra qualche giorno inizieranno la bonifica e allora di sicuro inizieranno anche i guai, per tutti noi. Io e gli altri abbiamo deciso di andarcene prima del tempo su a Sezze dove almeno per un po’ saremo al sicuro.
Mariani aspetterà l’arrivo degli addetti inviati dal Duce per illustrare loro la situazione e poi consegnerà loro l’agenda.
Mi auguro che non accada nulla a nessuno, ma temo che le mie...

 

***

 

La notte era scesa da poche ore, e la nebbia aveva coperto come un funebre sudario tutta la palude. Le poche isole di terreno che si ergevano al di sopra dell’interminabile distesa di acquitrini e pozzi di putrida acqua stagnante erano completamente avvolte dalle tenebre. L’unica luce proveniva dal cielo: era il pallido e spettrale riverbero generato dalla luna di febbraio.
Piero Mariani era rimasto solo. Accanto a lui vi era soltanto il piccolo figlio di sette anni, Erminio. Entrambi si erano barricati nella piccola lestra di pietra e argilla, al centro di un podere circondato da pozzi e da grossi canali di acqua. Piero aveva serrato le finestre al meglio con grosse assi di legno, sbarrato la porta con alcuni mobili che contenevano dei sacchi di farina e alcune casse d’olio, e riempito il camino di legna che ardevano con un vigore e un’intensità che il piccolo focolare di pietra nera aveva visto solo di rado.
«Papà, ma perché non andiamo a dormire?» chiese il piccolo Erminio «Stai aspettando qualcuno?»
Il signor Piero stava col muso incollato alla finestra, tentando di sbirciare fra le assi e riuscire a vedere fuori. Dinanzi a lui si estendeva, senza fine, la grande palude.
«Non possiamo andare via ora, lo sai bene che non si può uscire di notte» rispose l’uomo con tono severo ma al contempo preoccupato.
«E perché papà?» chiese curioso il bambino.
L’uomo non seppe rispondere. Sapeva bene che la sua risposta, seppur atta ad intimorire il figlio, era terribilmente vera. E, nel profondo, terrorizzava anche lui.
«Perché ci sono i mostri» rispose, la voce interrotta dalla necessità di deglutire.
Il bambino rimase zitto in ascolto, impaurito, con ogni senso del suo corpo teso a percepire ogni singola vibrazione proveniente dai campi circostanti.
Piero tornò a fissare la palude. Strabuzzò gli occhi, per accertarsi che ciò che ora stava vedendo fosse vero. Fra la fitta foschia, in lontananza, ora erano apparse le nere sagome dei morti. Prima due, poi cinque, infine dieci o forse anche di più. Il signor Mariani aveva già perso il conto.
Seppure lenti ma terribilmente minacciosi, la schiera dei morti della palude avanzava verso la piccola casa al centro del podere.
«Vai a prendere lo schioppo, Ermì» ordinò l’uomo a suo figlio. Sapeva bene, però quanto fosse inutile quella soluzione.

 

“il fuoco non li brucia, il ferro non li morde, non esiste modo per uccidere la morte”

 

Le atroci parole della nenia che sin da piccolo i suoi genitori gli avevano insegnato a ripetere senza sosta gli riecheggiarono sinistre nella sua mente tormentata.
Erminio corse verso il baule all’angolo della stanza. Sollevò il cofano di legno e abbracciò il fucile. Fece per voltarsi verso il padre quando sentì una serie di tonfi provenire dalla porta.
Si avvicinò cauto e sbirciò dalla feritoia.
«Papà!» esclamò, tirando il chiavistello «Luca è tornato!»

Luca Colandrea