Un giorno ordinario

Oggi sembra una di quelle giornate trascorse in maniera talmente inutile che, se non fosse esistita, allora, nessuno se ne sarebbe accorto.

 

Ho passato le ore della mattina a sonnecchiare, e prendere in mano qualche libro dalle pagine piegate che odorava di ciclostilo e tarme, ho acceso la tv irritandomi per la stupidità dei programmi dedicati alle casalinghe che danno tra le nove e l'una, ho cercato di lavorare un pò, fingendo di non sentire il dolore atroce che mi sfiancava le membra e metteva in moto un'emicrania selvaggia che mi penetrava il cervello come un trapano da settecento watt.

 

Siamo piccoli, siamo insignificanti, siamo brutte sfaccettature superflue di una natura e di un mondo per cui risultiamo alla fine inutili; putrescenti totem fatti di carne, rappresentanti di una civiltà che vorremmo più avanzata ed umanizzata ma che riusciamo a mortificare ed affossare anche in questa semplice maniera: facilmente, mettendola da parte e congelandone un millimetrico pezzo, un giorno inutile, senza senso, vuoto, attorniato da cerchi concentrici di grigio e clima freddo, da verde lussureggiante e rumori di lontananza che sembrano anteporsi, meccanica aborrente, a frusciare e bisbigliare di qualcosa di più grande, di più forte, di più sublime, e che vorremmo ci penetrasse, permeasse ogni nostro gesto, lo innalzasse e lo immolasse ad un baffuto e spinto "contatto" che però, si sappia, noi non saremo mai in grado di perorare, vista l'indifferenza naturale delle cose animate e degli empirici disegni secolari, nei nostri confronti.

 

Ogni tanto, mentre ripassavo pagine e pagine di carta, prendevo caffè o mi avvicinavo alla mia scrivania, dalla finestra sentivo un leggero battito, come di cose che volevano che io dessi retta loro, come di un cuore dal battito infinitesimale che però, regolarmente, si sente e sparge il seme del suo sangue lungo l'asfalto della strada, la punta dei monti, il respiro degli alberi umidi, il calore preservante dell'humus nel bosco.

Ho deciso di non pranzare per non aggiungere un sicuro mal di stomaco all'emicrania che, continua a martellarmi le tempie, sempre presente, sempre frustrante, angosciante e flessuosa.
Mi verrebbe voglia di prendere un'accetta e aprirmela questa cazzo di testa, per poi mettere a mollo il cervello incandescente ed ancora palpitante.
Avrei voglia di mozzarla questa testa, e ripormela in freezer con tutte le appendici del collo ancora sanguinanti, su un bel piatto bianco smaltato.
Ma non mi riesce possibile perché non trovo né un'ascia, né uno strumento adatto allo scopo, e allora mi affliggo ancora di più.

 

Me ne torno nel letto, angustiato più che mai, ma le lenzuola si muovono e mi soffocano come grovigli peripatetici e mai fermi.
Nemmeno sonno mi riesce di prendere. Sarebbe un ottimo metodo per seppellirmi ancora di più in quel torpore che sembra inghiottirmi come se fossi in un calderone infernale dove l'unica via d'uscita è la dannazione della mia anima.
Dopo una lotta senza quartiere, alla fine, riesco ad addormentarmi, e mi dimeno in uno stato Rem convulso e leggero, che mi stronca ogni possibilità di stare tranquillo: ho freddo se mi giro di lato, mi batte la testa standomene supino, mi si blocca la circolazione se provo a riscaldarmi ponendomi in posizione fetale.

 

“Oh! Stronzo! Ma le muovi quelle cazzo di gambe? Ti muovi, faccia di cazzo? Allora! Quanto cazzo di tempo devo stare ancora ad aspettarti?

 

Cristo, nemmeno questo siete riusciti a fare oggi, brutti stronzi. Troppo occupati a starvene beati a guardare il culo di qualche troia, eh?

 

Ma no, non preoccuparti, non ho intenzione di farti nulla.
Magari sai, potrei... potrei... potrei...
Magari potrei, sempre che tu me lo permetta s'intende, sventrarti lo stomaco solo per vedere che cazzo c'è dentro, e magari strappartelo per inchiodarlo al lucernario della porta di casa tua. Sai che bello? A te, non mi avevi detto che ti piaceva la pop art?
Beh, a me fa schifo, ma sai, ci metto poco a cambiare idea.”

 

Continuo a rigirarmi nel letto, ed anche se mi sento mezzo addormentato, ogni volta che mi muovo sento cigolare qualche maglia della rete metallica di supporto, e questo pungolo mi entra facilmente nei lobi celebrali stimolandoli, rendendoli ancora di più vulnerabili.

 

“Chissà, se morissi, quanta gente verrebbe al mio funerale.
Chissà se mia madre piangerebbe come ogni madre che si rispetti.
Sciocchezze. Certo che piangerebbe! È mia madre per la madonna! Piangerebbe eccome!
E come sarebbe la mia tomba? Il mio tumulo?
I becchini la chiuderebbero con quel puzzolentissimo cannello a stagno che mi costrinse una volta, non ricordo bene quando, ad usarlo per saldare le braccia ad una vedova al cimitero che strappai di forza davanti alla tomba del marito?

 

Ricordo che scalciava come una capra che non volesse essere legata. Non credo fosse per la violenza che io le usavo, ma perché, forse, all'inizio, pensava fossi un qualcuno di sua conoscenza che volesse alzarla e consolarla della perdita del suo compagno.
Ma ci mise poco a capire che così non era.
I suoi occhi, stranamente lucidi per le copiose lacrime prima, diventarono rossastri ed iniettati di sangue quando le strinsi il petto e la strappai alle sue lamentele.
Mi guardava con terrore non riconoscendomi, e gridava talmente forte che dovetti prendere una pala e sbattergliela forte sul muso per farla stare zitta.
Più e più volte, sempre più forte perché, ad ogni colpo si alzava un grido sempre più alto.
«Brutta puttana, ma perché non te la tappi quella cazzo di fogna?»

 

Nel camposanto non c'era nessuno, e questo mi riempiva di felicità.
Stavo bene, mi godevo quel poco di tangibile felicità eterna che riuscivo a strappare dalla pace eterna dei morti.
Gente che ormai non soffriva più.
Che siano stati al cospetto del padreterno, o a ruminare radici amarognole infestate di vermi ed insetti, poco importa.
La voce dei morti non è altro che la pace, senza fine e senza orli.
Affascinante.

 

Dopo aver trasportato la donna nella camera ardente del cimitero, la poggio sul marmo freddo del piano rialzato su cui normalmente ci si appoggiano le bare e i fiori.
Svenuta, le si riconoscono bene attorno alla bocca sanguinante i segni dei calci e dei pugni che le ho dato con forza.
La osservo qualche momento, poi prendo a pestarla ancora di più. Le do cazzotti nella pancia, sul petto giungendo le mani, in faccia; mordo le sue orecchie fino a strappargliele, provo ad aprirle le pupille che cedono con delicatezza e facendo un rumore osceno, come di qualcosa di appiccicoso rimosso da una superficie.
I suoi occhi sono ancora iniettati di fluido rosso, come tanti piccoli capillari senza iride si muovono in una bacinella chiusa e concava.

 

Cerco qualcosa di appuntito per poterglieli cavare.
Poverina, deve essere uno strazio sentirsi tutti quei vermiciattoli che le tolgono luce.
Cerco qualcosa di appuntito, il meglio che mi possa offrire un cimitero per portare a termine il mio compito. Quando la trovo, ne saggio prima la pesantezza e la maneggevolezza, poi, senza indugiare ulteriormente, con forza assesto un colpo preciso e profondo sulle palpebre chiuse della donna.
Questa, risvegliatasi di soprassalto, urla a più non posso, costringendomi ancora a tenerla ferma con la mano che ho libera e solo dopo che le ho, ancora una volta, scaricato una serie di cazzotti e calci sulla faccia tumefatta e sanguinolenta, riesce a stare zitta e a ripristinare l'equilibrio di pace e silenzio che nel cimitero alita.

 

Il collo si è fatto grigio, noto, e le vene e le arterie si sono gonfiate come pompate.
Avvicinando l'orecchio al suo naso rotto non sento più respiro.
Allora strappo la piccozza dall'orifizio che le ho sfasciato e che fino a poco prima conservava il suo occhio destro e, con la stessa millimetrica precisione, assesto un colpo deciso nell'altro, facendo schizzare sangue lungo i pannelli di marmo marroncino e grigio che rivestono le pareti.

 

Il corpo della donna si è fatto rigido dopo qualche tempo che mi sono abbandonato a terra poggiandomi ad un angolo del muro, sporco di sangue e con righe di sudore che m'imperlano la fronte.
Devo decidere che cosa farne del cadavere. Poi però, “Cristo” penso, “Sono in un cimitero, che cazzo! Potrei inchiodarla a qualche croce di marmo, oppure cercare di disseppellire la tomba del marito, aprirla e ficcarla a forza su quel che resta del suo compagno...”.

 

Decido invece di tagliarla a pezzi e di metterla nelle urne cineree dell'ossario.
Sì, mi sembra un'ottima soluzione. Ma per gli intestini, per le parti molli, come si fa?
Vengo preso da una cupa disperazione.
Tutto è immobile e sembra accentuare il mio stato d'animo.

 

Quello che vedete scritto nei romanzi gotici: corvi che gracchiano, cancelli che cigolano, fuochi fatui, terre smosse, fiori appassiti, lamenti in lontananza nei cimiteri.
Quelle sono tutte sciocchezze.
Un camposanto è un'oasi di pace dove tutto è pulito e sistemato, dove il cancello di ferro pesante è pitturato di fresco, dove anziché i corvi gracchiare ci sono gli uccelli che cinguettano, a volte, tra i rami resinosi dei cipressi e dei pini.
Nient'altro.

 

Dalla mia macchina prendo una sega da cinquantasei centimetri, un punteruolo con la testa piegata per i colpi ed una mazza da quattrocento grammi.
Tornando verso la camera ardente, lordo di sangue che m'imbratta i vestiti, nessuno c'è ad osservarmi, niente di niente a porre fine al mio sporco ed orripilante lavoro: Nessuno.

 

Smembrare, staccare parti, mozzare, amputare, macellare un cadavere non è così semplice come si possa pensare.
Le ossa umane hanno sì funzione di struttura portante per le parti molli e per i muscoli, ma sono anche un'infallibile sistema di vincoli e di cerniere che impediscono ad esempio, all'addome di separarsi dal dorso, oppure alla testa d'essere spiccata dalla cassa toracica.
Così, dopo due ore di duro lavoro ed impegno, ho imbrattato di sangue e fluidi corporei tutta la stanza.
Magari dopo prenderò il sifone dell'acqua e laverò tutto, allagando il pavimento senza pendenza, oppure lascerò tutto così, sicché, quando qualcuno arriverà, si renderà subito conto del fatto che, per una volta, io ho trasformato un luogo di pace eterna, in un mattatoio o in un macello. Cosa che mi riempie di ilarità, talmente tanto che, mentre prendo diverse urne dall'ossario e le svuoto nei bidoni della spazzatura facendo alzare nugoli di polvere e ossa che il tempo ha divorato, mi metto a fischiettare un motivo che non mi ricordo di avere mai sentito in vita mia.

 

Tutto è apposto.
Mi ci sono volute venti urne per poter sistemare tutti i pezzi che, per quanto di mia possibilità, ho anche saldato l'uno all'altro con un cannello a stagno che ho trovato in un deposito d'attrezzi, e adesso giacciono ordinatamente sul piano di marmo, facendo sembrare quello che è successo prima, solo un incubo e nient'altro.
Le lascerò lì, adornandole da lumini funerari che rubo dai tumuli più vicini e da fiori che rubo dai vasi numerosi che trovo in giro.
Nella stanza adesso, oltre al fetore di morte, s'aggiunge il profumo antropomorfo di crisantemi e garofani, di orchidee e di rose, di cera che si scioglie e di disperazione ancora latente.

 

Le viscere le prendo su una spalla, o almeno cerco, visto che sono un groviglio senza fine e pesante, puzzolente e che sguscia via come un mucchio d'anguille.
Decido di appenderle ai lumi sulle tombe, tesandoli di tanto in tanto affinché non cadano sulle lapidi pulite o sulle foto dei defunti, ma non posso evitare che sgocciolino dappertutto, e alla fine, comunque, le lapidi sembrano come pali per stendere il bucato che non è stato strizzato, sporcandosi di macchie scure, quali blu e quali rosso cupo, quali marrone e quali chiare.

 

Uscito, senza ripulirmi, accendo lo stereo cercando di colmare il vuoto che mi si è prodotto in testa, e le note, feroci e potenti, svettano veloci e si conficcano nella gola, incapace di non stare dietro alla musica.”

Ozzy Rotten

Sono nato nel 1978 in un posto qualsiasi di una qualsiasi regione italiana. Studio Storia Moderna e Contemporanea. Appassionato di letture di cui mi ritengo onnivoro, leggo autori quali Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Amelie Nothomb, Indro Montanelli, Robert Bloch, H.P. Lovecraft, R.M. Rilke ed altri. Oltre alla letteratura, l’altra mia grande passione è per la musica che ascolto, per la quasi totalità di genere “pesante”, e che mi diletto a suonare con la mia band, i “CieloScuro” di cui sono cantante a tempo perso. Non ho aspirazioni di fama di sorta; mi accontento di scrivere le mie cose, belle o brutte che siano, nel mio Blog, il “Reame di Ozz”.