E' già successo

“Stavolta ce la faccio” pensava Piero arrancando sulla salita della collina di San Eustachio, la schiena curva sotto il sole e le gambe che pompavano sui pedali.
“Ce la faccio, li ho staccati tutti di almeno un chilometro, nemmeno li vedo più. Michele Sorrenti, Giacomo De Giovannis, e quel buffone del figlio della tabaccaia che vince lui ogni anno e poi va a fare la ruota in piazza come un pavone. Voglio vedere, adesso, se diranno ancora che sono un rammollito.”
La bici nuova, comprata con il sacrificio di sei mesi di lavoro, era in carbonio leggerissimo e sembrava volare. La salita era ardua, ma Piero si era allenato bene e aveva dalla sua il carburante di cinque anni di sconfitte, sangue acido e sfottò duri da digerire, così a mollare non ci pensava nemmeno. Non si sarebbe fermato per niente al mondo, a costo di arrivare al traguardo con il cuore spaccato in due. Non stavolta. Non così vicino a quella rivincita sognata per tanto tempo.
Su in paese, alla fine di quell'infame striscia d'asfalto che tante volte lo aveva umiliato costringendolo a smontare di sella e proseguire a piedi, era già tutto pronto per la festa: il sindaco aspettava impettito con la targa di platino sottobraccio, i paesani chiacchieravano cercando d'ingannare l'attesa e i monelli si rincorrevano sul sagrato della chiesa disturbando l'orchestrina che provava ad accordare gli strumenti. Le ragazze attendevano in piccoli gruppi facendosi aria con i ventagli, infiocchettate come bomboniere nei vestiti più belli, e palpitavano per questo o quel concorrente. Di tanto in tanto si avvicinavano all'amica del cuore, bisbigliavano il nome del favorito e si ritraevano con una risatina che increspava di tenue malizia le belle labbra appena turgide di rossetto. Piero sapeva che nessuna di loro tifava per lui, immaginava che neppure sapessero che s'era iscritto anche quell'anno, ma si diceva che le cose stavano per cambiare. Quando l'avrebbero visto sfrecciare con le braccia alzate sul traguardo, sudato e scarmigliato per la gran fatica, e quando poi avrebbe preso la targa e l'avrebbe sollevata in aria assieme a un mazzo di fiori, allora si sarebbero tutte accorte di lui. Che ressa avrebbero fatto per invitarlo al gran ballo di fine estate, e come se lo sarebbero conteso alla sagra della castagna, quando si eleggeva la coppia più bella tra quelle dei giovani di tutto il paese! Piero il solitario, Piero il perdente, Piero che prendeva i calci in culo da tutti stava per scomparire per sempre come una frase sgrammaticata da una lavagna. Al suo posto sarebbe arrivato, in sella a una bici rossa fiammante, un ragazzo nuovo che tutti ammiravano e rispettavano. Piero. Quello che aveva vinto il gran premio di San Eustachio.

Era solo una corsetta di campagnoli, come avrete potuto capire, ma per lui aveva un valore incommensurabile. Quando sei lo zimbello di un paese di seicento anime o provi a schiodarti di dosso quella nomea finché sei in tempo o ci convivi finché non crepi, e siccome Piero era giovane e non voleva passare i prossimi sessant'anni a essere deriso sbuffava, sputava e stringeva i denti su quella salita.
Arrivato a metà strada, dove le file degli alberi si aprivano sulla distesa sottostante di campi e cascine bianche, gettò lo sguardo a occidente e vide la sua casa. Gli sembrò di distinguere suo padre seduto sotto il portico, con la pipa in bocca, che leggeva il giornale. Anche quell'anno non era andato a guardare la corsa, per risparmiarsi lo scorno del figlio che arrivava sempre ultimo. Ah, come sarebbe rimasto sorpreso nel vederselo ritornare a casa con il primo premio, non sarebbe stato più nei calzoni per la contentezza. Se ne sarebbe vantato al bar e al lavoro, prendendosi una bella rivincita su tutte quelle canaglie che l'avevano sempre offeso. Per la prima volta sarebbe stato fiero di lui, e avrebbe camminato a testa alta.

 

Indietro non c'era nessuno. Piero si chinò in avanti e trasse da se stesso le forze residue per vincere la spossatezza, bestemmiò santi e pregò diavoli affinché gli concedessero un altro poco di forza, chiuse gli occhi e per un tratto andò avanti senza guardare la strada. Distrutto, mise mano alla borraccia e l'aprì: quattro gocce d'acqua, le ultime, gli piovvero sulla lingua quasi a volerlo prendere in giro. Era davvero allo stremo a quel punto, un uomo solo contro chilometri di dolore.
E poi, improvvisamente, il mondo collassò e si spense. Non del tutto, naturalmente, diciamo che passò dal technicolor al bianco e nero. Diciamo che il sole scomparve, e che il cielo cominciò a rombare e gemere, e il vento a ululare come una vecchia pazza moribonda. L'aria fu attraversata da vibrazioni tremende, una scarica elettrostatica di potenza inaudita, ma neppure questo riuscì a fermare Piero. Testardo come un mulo, troppo determinato perfino per avere paura, andò avanti cercando di non guardare. Qualunque cosa fosse doveva finire prima o poi, si disse. Il paese non era lontano, e quella specie di tempesta non poteva durare per sempre.

 

Il paese gli comparve davanti tutt'a un tratto, solo che era deserto e devastato, un cimitero di ruderi informi che ricordavano solo vagamente le case che lui conosceva e che aveva visto da lontano appena mezz'ora prima. Qualche muro portante svettava su un mucchio di detriti come una gigantesca lapide, la croce del campanile giaceva al suolo spezzata, l'insegna del negozio della tabaccaia era un mosaico di schegge impossibile da ricomporre. Giacche, maglie, pantaloni e scarpe erano abbandonati dappertutto, dei loro padroni non c'era traccia da nessuna parte. Su quella tetra desolazione il cielo piangeva pesanti scrosci di pioggia maleodorante, cancellando i solchi che la bici tracciava sulla strada verso il traguardo. Adesso Piero aveva paura.
Costeggiò mozziconi di edifici e rimasugli di marciapiedi, ma non incontrò nessuno. Un paio di volte gli parve di notare strane sagome sui muri, ma non si avvicinò per guardare. Si fermò invece sotto il portico di casa sua, atterrito dall'ombra di suo padre fotografata sulla parete. Sembrava seduto, con il giornale in mano e la pipa in bocca come l'aveva visto poco prima dalla salita, ma non era lui, era solo il suo riflesso nero sopra la pietra. C'era anche la sedia, vuota, e c'erano i suoi vestiti sparpagliati dappertutto, ma mancava il corpo, e non riusciva a capire dove fosse finito. Piero era terrorizzato, e si aggrappava alla bicicletta come se temesse di vedersela scomparire da sotto il sedere da un momento all'altro.

 

Un rumore lo spinse a voltarsi. Dietro di lui c'era una piccola figura intabarrata in uno scafandro bianco, che sembrava fissarlo. Non vedeva la faccia, perché il vetro del casco era traslucido, ma si sentiva addosso uno sguardo curioso che lo metteva a disagio. Restò a fissarlo senza proferire parola, e sebbene non li dividessero che pochi metri Piero ebbe la sensazione che fossero disperatamente lontani, intrappolati in mondi diversi che si sfioravano senza collidere. Uno spasimo atroce gli regalò l'improvvisa consapevolezza di ciò che stava vivendo, e quando parlò la sua voce era un gorgoglio di lacrime sepolto in una gola senza saliva.
- Quando succederà? - chiese tremando, le mani strette sul manubrio quasi a volerlo sradicare dal telaio. La figura non rispose, anzi si voltò e corse via a gambe levate. Un attimo dopo era sparita dietro un ammasso di calcinacci, lasciandolo solo con il suo incubo.

 

Il mondo tornò a colori, e Piero tornò sulla sua salita. Oramai era alla fine, e gli bastarono poche pedalate per tagliare il traguardo e vincere. Le ragazze lo baciarono, il sindaco gli consegnò la targa, la banda intonò un motivetto allegro e ballabile. Arrivò perfino suo padre, richiamato dal gran chiasso, con la pipa stretta tra i denti e il giornale sottobraccio, e per la prima volta da quando era stato un bambino lo abbracciò forte. Piero si sforzò di sorridere, ma dentro di lui era morto qualcosa. Sembrava che tutto ciò per cui aveva lottato poco prima, mentre sgobbava sulla collina, non significasse più nulla, che ogni cosa avesse perduto la sua ragion d'essere. Sulla prima pagina del giornale di suo padre, in un trafiletto cui non s'era voluto dar troppo risalto, riuscì a sbirciare un pezzo d'articolo in cui si parlava di relazioni internazionali tese tra l'Italia e l'ex-alleato americano. Volse lo sguardo da un'altra parte e si specchiò nel platino della targa. La sua espressione, pallida e spaurita, terribilmente vuota come se il mondo gli si fosse sgretolato attorno, era la stessa che aveva visto riflessa nel casco della figura incontrata tra le macerie.

 

- Allora, vi è piaciuta la gita? - stava chiedendo la maestra alla scolaresca, sull'hoverbus che li riportava in città. - Ricordate che bisogna conoscere anche le tragedie della nostra storia per... sì, Clyo?
Clyo si alzò con gli occhi spalancati, scosse il capo e si fregò nervosamente le mani.
- Ho visto un signore, nella terra distrutta. - disse - Stava sopra uno strano affare a due ruote. Mi ha parlato.
I compagni di classe cominciarono a ridere e schernirla, ma la maestra impose il silenzio.
- Clyo, come puoi aver visto qualcuno? - sorrise. - C'eri anche tu quando ho parlato degli effetti della bomba, e come ho detto non sopravvisse nessuno. Da allora, e ti parlo di circa duecento anni fa, non ci si può spingere in queste zone se non protetti dalle tute antiradiazioni, e soltanto per poche ore alla volta. Non puoi aver incontrato un uomo.
- Ma io l'ho visto! - protestò la bambina. I compagni risero più forte.
- Va bene, Clyo, va bene, l'hai visto. Adesso però vogliamo parlare di cose più serie? Chi mi sa dire com'era composta la bomba, e perché fu scelto di sganciarla proprio su questa parte del paese?
Molte mani si alzarono, ma tra esse non c'era quella di Clyo. Lei odiava non essere creduta, e odiava ancora di più quando la trattavano con condiscendenza per farla stare tranquilla. Ripensò all'uomo sullo strano arnese, alla sua faccia zuppa di sudore e a quegli occhi sgranati, vitrei, a quelle mani serrate che tremavano forte mentre parlava.
“Quando succederà?” le aveva chiesto, sporgendosi in avanti fin quasi a toccarla.
- È già successo - rispose lei tirando fuori il quaderno dei giochi, dopodiché prese i colori e si mise a disegnare una bicicletta.

Alfredo Mogavero