La lingua d'erba

Paternò scruta famelico il piatto di bigoli che gli sta davanti. A noi due, pensa. Alza la forchetta per sferrare la prima stoccata.
«Maresciallo! Maresciallo!»
L’urlo lo coglie così, con la forchetta in pugno e un fazzoletto grande come un lenzuolo incastrato sotto la pappagorgia. Paternò guarda l’appuntato Bruseghin, che si è preso avanti e ha già la bocca piena. «Vai a vedere chi è,» dice. Bruseghin apre i battenti e guarda giù.
«Ebbebibareallo,» farfuglia. Poi inghiotte un boccone enorme: «È Bepi, maresciallo.»
Paternò si affaccia al balcone e guarda in strada.
Bepi l’arrotino, o el moleta come dicono da queste parti, sta appoggiato placido alla sua bicicletta. «Buongiorno, maresciallo. Si tratta di Toni Fabioco,» dice con tutta la calma del mondo, «l’ho trovato nel suo podere. Morto stecchito.»
Paternò bestemmia tra i denti. Le rogne arrivano sempre all’ora di pranzo. «Va bene,» dice all’arrotino, «scendo e ci andiamo insieme.» Poi, rivolto a Bruseghin: «Appuntato, le chiavi dell’auto?»
«L’Alfa è dal meccanico, maresciallo,» gli ricorda Bruseghin.
«Ancora? Cosa si è rotto, stavolta?»
«Lo spinterogeno, maresciallo.»
E lui che pensava di starsene tranquillo, una volta ottenuto il trasferimento in una stazione di provincia del Nord! «Vorrà dire che al podere di Toni Fabioco ci andremo in bici!»
«Con rispetto parlando, maresciallo, io ho il cuore debole,» Bruseghin lo guarda untuoso, «se vado in bici su per le colline ci resto secco.»
«Cuore debole, certo! E dopo dicono che i fannulloni siamo noi meridionali!» Paternò si toglie il tovagliolo dal collo e lo appallottola con gesto rabbioso. «Auto che cadono a pezzi e appuntati lavativi. Certo che l’Arma ci fa proprio una bella figura!»
Guarda con rimpianto i bigoli fumanti. Avete vinto una battaglia, non la guerra, mormora mentre scende le scale.

I troppi intingoli e il poco moto sono un mix letale. Paternò ha le gambe di piombo, il respiro affannoso e la milza che urla: «Uccidimi!»
Impensabile tenere il passo di Bepi. Quel vecchietto rincagnato pompa sui pedali senza sforzo, una decina di metri più avanti, e si capisce che sta andando piano per non perderlo per strada. Ci fosse almeno la bellezza del paesaggio a distrarlo dalla fatica. Paternò odia le colline venete in autunno, le trova di una tristezza unica. Dio, come gli manca la sua Siracusa.
Bepi si volta: «Siamo quasi arrivati, maresciallo.»
Un’ultima salita, e imboccano una strada sterrata che mette a dura prova la Graziella del maresciallo. Arrivano al casolare di Toni. Ad accoglierli, i latrati rauchi di un cane legato alla catena.
«Quello è Rambo,» dice Bepi. «Quando sono arrivato pareva impazzito. Ho chiamato Toni ma non mi ha risposto. Allora sono entrato nella rimessa, e l’ho trovato a terra.»
Paternò scende dalla bici, e si concede qualche secondo per riprendere fiato. Prima Bepi l’ha chiamato podere, ma a lui quella sembra una discarica. L’abitazione, una vecchia casa colonica, è in parte crollata e i buchi sono stati rabberciati alla meglio con tavole di lamiera. Nell’aia regna l’anarchia: mobili sfondati, cataste di legna, bidoni di cherosene, e persino un trattore arrugginito e privo di ruote, sono ammonticchiati alla rinfusa.
«D’accordo, vediamo ‘sto morto,» dice Paternò.
Bepi fa strada verso una stamberga poco distante. Lascia che sia il maresciallo ad aprire la porta cigolante e a entrare per primo. Paternò è contento di non aver ancora pranzato. Il cadavere è meno spaventoso di quel che temeva, ma l’aria nel bugigattolo è dolciastra, pungente.
Toni Fabioco giace a terra. A prima vista sembra un pupazzo di stracci. Non doveva pesare più di sessanta chili. Ha gli occhi sbarrati e dalla bocca spunta un pezzettino di lingua, di un insolito colorito verde. Le dita della mano sinistra sono chiuse ad artiglio attorno a una tanica vuota.
Vincendo il ribrezzo, Paternò tocca la tanica con la punta di una scarpa, fino ad allontanarla dal cadavere. Poi la porta alle narici. Basta una zaffata a farlo indietreggiare. Si guarda attorno. Il banco da lavoro e gli scaffali sono zeppi di flaconi, bottiglie e provette di ogni genere.
«Gli piaceva giocare al piccolo chimico, eh?» chiede a Bepi.
«Sì, era la sua passione. Era sempre alla ricerca di una formula che lo rendesse ricco. Ultimamente voleva creare un nuovo tipo di fertilizzante. Sa,» aggiunge l’arrotino dopo un secondo di indecisione, «non c’era tanto con la testa.»
Si è suicidato scolandosi una tanica di fertilizzante, pensa Paternò, puoi ben dirlo che non c’era tanto con la testa.

 

***

 

Il medico legale di turno è un pivello fresco di laurea. Si chiama Dal Pra e ha ottenuto il posto ungendo gli ingranaggi giusti, quindi può permettersi il lusso di arrivare in ritardo.
«Salve, Battiston. Giornata ideale per squartare cadaveri, non trovi?» strilla garrulo entrando nella sala autopsie, «Cos’abbiamo oggi?»
Battiston, l’assistente, riesce a resistere all’impulso di prenderlo a pugni e ringhia: «Un corpo dalla provincia. Probabile avvelenamento.»
Toni Fabioco, steso su un lettino d’acciaio, è coperto da un lenzuolo bianco.
Dal Pra si lava le mani e, con calcolata indifferenza, procede alla vestizione: cuffia, camice, mascherina e guanti. Battiston, che è già pronto, tamburella con le dita sul tavolo degli strumenti.
«Molto bene, cominciamo.» Il medico legale si schiarisce la voce e accende il registratore. Cercando di darsi un tono, snocciola le frasi di rito: «Esame autoptico n° 36. Responsabile: dottor Vittorio Dal Pra.» Un attimo di pausa per consultare le carte, e poi: «Nome del paziente: Antonio Fabioco. Età: sessantadue anni. Probabile causa del decesso: avvelenamento.»
Dal Pra tasta le membra rigide, controlla le pupille, quindi apre la bocca del morto per ispezionarla all’interno. «Qui c’è qualcosa di insolito. La lingua è verde, quasi certamente a causa della sostanza ingerita. Mi passi la lente d’ingrandimento?» Battiston obbedisce. Dal Pra osserva a lungo la lingua, perplesso.
«Allora?»
«Non... non saprei. Non ho mai visto nulla di simile. La lingua è ricoperta da una strana peluria verde. Sembrerebbe quasi... erba.»
«Erba? Ma è ridicolo!» sbotta Battiston.
«Guarda tu stesso.»
L’assistente dà un’occhiata. Dal Pra ha ragione: quella è proprio erba, una minuscola porzione di perfetto prato all’inglese sulla lingua di un cadavere.
«Cosa facciamo?» chiede Dal Pra. La baldanza è sparita dalla sua voce, sembra un tredicenne sul punto di scoppiare in lacrime.
Battiston alza le spalle: «Proviamo ad aprirlo.»
Dal Pra annuisce. Afferra un bisturi e pratica un’incisione a Y sul torace di Fabioco. Solleva i lembi di pelle e resta così, senza sapere cosa dire. Sente appena il «Porca troia!» bisbigliato da Battiston. Nel torace del cadavere non ci sono né organi, né ossa, né sangue. Solo erba, un mucchio d’erba dal verde brillante.
Erba che cade sul pavimento, mentre Fabioco si affloscia come un otre bucato.
«Penso,» dice Battiston, sudando sotto la mascherina, «che dovremmo chiamare il comando di Padova.»
«Buona idea,» guaisce Dal Pra.
Si voltano, ed è allora che il mucchio d’erba li attacca.

 

***

 

Il colonnello Di Franco si tormenta la protesi al braccio sinistro. Quello vero lo ha lasciato a Mogadiscio. Ricorda tutto di quel giorno: le pallottole che fischiavano sopra la sua testa, le urla dei ribelli somali, il dolore che quasi lo faceva svenire.
E la paura, solida e paralizzante. Lo stesso tipo di paura che sta provando in questo momento.
Ha un sussulto, quando squilla il telefono. Afferra il ricevitore con la mano sana.
«Pronto.» È Vendrame, il responsabile dei laboratori di ricerca dell’Esercito.
Di Franco non perde tempo in convenevoli. Non ne ha il tempo. «Cosa sappiamo di questa... cosa?» Quasi sputa l’ultima parola con disgusto.
«Molto poco. Non sappiamo le sue origini. Un esperimento chimico sfuggito di mano, forse. Quello che sappiamo è che siamo di fronte a una forma di vita estremamente aggressiva nei confronti dell’uomo.»
«Estremamente aggressiva è un eufemismo, professore.»
Di Franco ha visto i filmati e ascoltato il racconto dei superstiti. Un mare d’erba che travolge e maciulla tutto ciò che gli sta davanti, ecco la definizione esatta.
«È invulnerabile. I proiettili e le granate non la scalfiscono. Il fuoco la brucia, ma si rigenera subito.» Vendrame fa una pausa. Di Franco lo immagina impegnato ad aggiustarsi gli occhiali sul naso adunco. «Anche la sua capacità di proliferazione è un mistero. È come se quell’erba fosse costantemente irrorata da un fertilizzante.»
«Ditemi che sapete come fermarla.»
«Abbiamo creato un siero sperimentale che dovrebbe riuscire a bloccarla, ma non ne conosciamo l’efficacia. Inoltre...»
Di Franco coglie l’esitazione nella voce del professore e non gli piace per nulla. «Che c’è ancora?»
«Dai campioni in nostro possesso, ci siamo resi conto che l’erba non si limita a crescere. Può anche riprodursi per scissione.»
«Riprodursi per scissione?» Di Franco è raggelato dalla notizia. «Vuole dirmi che quella cosa si sta moltiplicando?»
Vendrame non risponde.
«Mi sente, professore? Mi sente?»
Dalla cornetta proviene solo silenzio. Un guasto alla linea, probabilmente. Di Franco posa il ricevitore ormai inutile e spalanca la porta. Strattona un soldato: «Presto, mettetevi in contatto con i laboratori di ricerca...»
Il soldato, bianco in volto, indica la vetrata: «È qui.»
Di Franco si gira e lo vede. Fuori, nella strada, un muro d’erba alto almeno dodici metri punta deciso verso di loro.

 

***

 

Paternò misura ad ampi passi la saletta comune della caserma, senza riuscire a calmarsi. La pioggia che martella le finestre non giova certo al suo umore. In un angolo, Bruseghin segue imbambolato un vecchio film.
Paternò ha bisogno di sfogarsi. «Appuntato,» abbaia, «possibile che non ti sei ancora stufato di quella robaccia? È la quinta volta che riguardi quel film!»
«È Blob - Fluido mortale, maresciallo,» replica piccato Bruseghin, «un capolavoro del genere horror. C’è quest’alieno che arriva sulla Terra dentro un meteorite e...»
«La solita americanata,» taglia corto Paternò. Si avvicina al telefono e alza la cornetta. Nessun segnale. Per il terzo giorno consecutivo.
Prima è saltata la linea telefonica.
Poi la televisione ha iniziato a trasmettere solo sabbia.
Come se non bastasse, l’Alfa è ancora dal meccanico. Risultato, Paternò è tagliato fuori dalla civiltà e sta uscendo pazzo.
Lo sa che arrabbiarsi non fa bene alla pressione sanguigna, ma non riesce a comportarsi diversamente. Lui non è Bruseghin, che affronta i problemi con un distacco quasi ascetico. Quando i canali si sono oscurati, l’appuntato ha frugato nel ripostiglio e ne è uscito con uno scatolone di videocassette.
Le ha guardate tutte, ma per Blob ha proprio perso la testa. Cosa ci troverà poi, in quel filmaccio?
Paternò appoggia la fronte al vetro gelido della finestra e si rilassa un po’. «Appuntato, ricordami che non appena la linea telefonica sarà ripristinata devo chiamare il comando per avere notizie dell’autopsia su Fabioco.»
Bruseghin, rapito dal film, non risponde.
«Figuriamoci se questo mi ascolta», borbotta Paternò guardando la pioggia crescere d’intensità. Almeno quest’anno non soffriremo di siccità, pensa. Magari si sbaglia, ma gli pare che la città, a valle, sia già punteggiata da tante macchie verdi.

Matteo Bigarella