Autogrill di sangue

Salvatore viaggiava molto per lavoro.
Quel venerdì notte stava rincasando molto tardi a causa di un contrattempo in una delle agenzie in cui era riuscito a piazzare un buon ordine dei prodotti che trattava.
Vedeva chilometri d’autostrade tutti i giorni, conosceva quel tratto perfettamente e, nonostante la fitta nebbia guidava con sconsiderata sicurezza al punto che, nel procedere a velocità sostenuta, quasi non vide un mezzo che andava molto lento, incerto a causa della foschia.
Con prontezza di riflesso schivò l’autovettura, la superò, rientrò con altrettanta audacia nella sua corsia e continuò la sua strada. La scossa d’adrenalina gli ricordò perché correva tanto.
Correva perché non vedeva l’ora di arrivare alla più vicina area di servizio per fare pipì poiché lui non avrebbe mai fatto pipì sul ciglio di un’autostrada neppure con la bruma che lo proteggeva da sguardi inopportuni.
Arrivato a destinazione notò che praticamente non c’era nessuno.
“Meglio” sì disse “non ci sarà fila ai cessi”.
Entrando nel nuovo e lucido autogrill si avvicinò al banco dietro al quale c’era una ragazza davvero brutta. Filiforme tanto da sembrare anoressica. I capelli unti mal legati in una coda di cavallo bassa. Lo sguardo insoddisfatto e stanco di chi sognava di fare ben altro che la barista di una catena d’autogrill.
Chiese un cappuccino passandole davanti senza fermarsi e la informò che avrebbe usato la toilette nel frattempo.
La giovane si girò a preparare la bevanda senza mostrare il minimo interesse al resto della frase che Salvatore le aveva rivolto.
I bagni erano scintillanti e grandissimi, come gli altri ambienti del locale.
Tornato al bancone bevve il cappuccino guardandosi attorno.
La barista si mangiucchiava un’unghia stando di fronte alla cassa.
Mentre osservava la giovane, d’improvviso, la luce andò via.
Sentì imprecare la ragazza sottovoce e la vide muoversi nella penombra verso una porta che forse dava ai servizi del personale o ai magazzini.
Finito il cappuccino, senza attendere il ritorno della luce si avviò cautamente nella semioscurità verso l’uscita.
Incespicò in un carrello di dolci e sbatté una spalla contro uno scaffale di riviste.

Arrivato alle porte notò che queste non si aprivano. Senza elettricità le porte scorrevoli non funzionavano.
Sbuffò e si mise le mani ai fianchi attendendo alcuni minuti che la tipa secca riuscisse a trovare il contatore generale.
L’attesa si prolungò per altri minuti che sembravano infiniti; le uniche luci che si vedevano erano quelle dei due neon d’emergenza ai due opposti lati del locale e quella arancione dei lampioni del parcheggio, smorzate dalla fitta foschia che si era intensificata impedendo di vedere al di là delle vetrate.
Spazientito si girò e ripercorse il passaggio fra gli scaffali immersi nel buio per tornare al bancone chiamando “Signorina?” sperando che questa le rispondesse.
Girato l’angolo notò sotto la fioca luce al neon la sagoma della barista appoggiata di schiena alla macchina del caffè.
La chiamò ripetutamente ma questa non rispondeva.
Arrivatole di fronte vide che stava a bocca spalancata, le braccia penzoloni, gli occhi riversi all’indietro.
Le chiese se stava bene e, vedendo che non rispondeva si agitò, capendo che la giovane doveva avere avuto una sorta d’attacco.
Entrò dietro il bancone e appena arrivò di fianco la barista provò a scuoterla per un braccio.
La testa le si girò sul lato e lo guardò con occhi spenti.
Salvatore si sentì gelare, la chiamò in un sussurro e questa cadde in ginocchio rivelando dietro la schiena un grosso coltello da caccia conficcato nella zona lombare fino al manico che l’aveva sorretta finora al ripiano di marmo sopra il quale c’era la macchina del caffè.
A Salvatore scappo un urlo che soffocò con le mani; gli sembrò di aver urlato come una femminuccia.
Il cuore gli batteva fortissimo, respirava rapidamente e tremava di fronte all’orrore che stava ai suoi piedi.
Era paralizzato dal terrore ma un piccolo rumore proveniente dall’angolo più buio di fronte a lui lo fece trasalire, risvegliandolo.
Si accucciò d’istinto sempre tenendosi la bocca tappata con le mani. Era vicinissimo al cadavere della tipa anoressica inginocchiata in modo innaturale con la testa piegata contro un’anta d’acciaio sotto il lavello; continuava a fissarlo con quei suoi occhi vitrei di morte, le braccia flosce, sembrava una bambola di pezza abbandonata a terra.
Sentì di nuovo il rumore, un po’ più vicino stavolta e preso da quello che si chiama istinto si allontanò dal cadavere percorrendo il bancone carponi, muovendosi lento, trattenendo il fiato in un silenzio tale da permettergli di sentire il cuore battere sopra lo strusciare dei suoi pantaloni sulla pedana gommata.
Appena uscito dal bancone si alzò sulle ginocchia restando accucciato con la schiena al di sotto del riparo che questo gli forniva.
Lentamente, cercò di trovare riparo dietro uno scaffale, si fermò e si sedette, rannicchiandosi il più possibile, acquattandosi per rendersi il più piccolo e meno visibile possibile.
Respirava il più silenziosamente possibile, sforzandosi di ricacciare indietro i singhiozzi di pianto che sentiva venir fuori.
Dopo alcuni interminabili istanti sentì un rumore che sperò non fosse quello che aveva immaginato: lo sfregare della lama che usciva dal corpo della ragazza.
Non ci pensò su molto, scattò in piedi e corse nel buio cercando l’uscita.
Correndo alla cieca finì con lo sbattere più volte contro contenitori e angoli di scaffali. Dietro di lui una scia di sacchetti che cadevano a terra frusciando, oggetti che si rompevano, i suoi passi pesanti in una corsa da preda in trappola.
Rischiò di cadere un paio di volte; non si fermò mai, perdeva l’equilibrio ma continuava a correre... in pochi secondi arrivò verso le porte a vetro scorrevoli e vi cominciò a picchiare a palmi aperti urlando, stavolta, davvero come avrebbe urlato una donna in preda al terrore.
Al di là del vetro c’era solo nebbia di un leggero colore arancione artificiale e il buio.
Quasi non si accorse del riflesso accanto al suo, sul vetro che vibrava sotto i suoi colpi, ma udì perfettamente il sibilare della lama che prima tagliò l’aria alla sua destra e poi si conficcò nel suo collo.
Il dolore fu improvviso, un bruciore che partiva dall’esterno e si propagava nell’esofago che intanto si riempiva di liquido caldo, impedendogli di continuare ad urlare, di respirare perfino...
Cadde a terra, tentò di raggiungere con le mani la lama per sfilarla ma ogni movimento era fonte di un dolore insopportabile.
Mentre agonizzava e si contorceva in spasmi violenti vide soltanto gli scarponi e i pantaloni del suo assassino.
Chiuse gli occhi e negli ultimi istanti di vita che sentiva scivolare via udì la frase dell’omicida dirgli “Così impari a tagliarmi la strada mentre c’è la nebbia, coglione!”
Diede un calcio al fianco di Salvatore che ormai non si muoveva più.
Morente, sentì i passi dell’uomo allontanarsi e, poco prima di perdere i sensi definitivamente vide la luce intermittente dei neon che si stavano riaccendendo.

Simone Romano