Il quarto piano

Arrivai a Roma nel tardo pomeriggio di un gennaio insolitamente mite. Non conoscevo la capitale, avevo sempre viaggiato poco e tutti quei cambiamenti improvvisi mi rendevano ansioso e fragile.
Mi trovavo lì per un improvviso trasferimento dopo vent’anni di servizio: forse ero l’unico che non aveva una famiglia a carico o forse dovevo far posto a qualche nuovo raccomandato. Inoltre, prima ero un dei responsabili dell’ufficio informatico, ora dovevo occuparmi solo dello smistamento della posta... provavo un senso di tradimento ed umiliazione ma avevo 49 anni e solo quel lavoro.
Appena il taxi arrivò a destinazione pagai, presi il mio unico bagaglio e ringraziai l’autista. Mi trovavo in una zona tutta edifici e fabbriche ove solo in lontananza si scorgeva un accenno di città.
Per un istante, avvertii la sensazione di ricominciare tutto da capo, come un crudo salto all’indietro nel tempo.
Osservai il grande palazzo di dieci piani che torreggiava dinanzi a me come una montagna da scalare, sbuffai e mi diressi lentamente verso l’ingresso: “Buonasera, sono il signor Sergio Focardi. Sono qui per la Cassa di Risp...” - “Ah, sì,sì!...Quello della banca!” - m’interruppe sgarbatamente il portiere - “Tenga le chiavi: quarto piano, la porta sulla destra!” - mi passò tre chiavi legate da un filo di ferro poi sparì nel retro della guardiola.
L’ascensore, rullando e traballando, si fermò con uno scatto al quarto piano. Il corridoio non era molto grande ed era illuminato da fredde luci al neon. C’era odore di disinfettante ed i muri lunghi e bianchi ricordavano la corsia di un ospedale. Entrai nell’appartamento: pulito e modesto, circa 60 metri quadri che includevano una piccola cucina, una camera, un bagno. Aprii la finestra e mi affacciai respirando profondamente. Ricordai la campagna umbra, la mia Spoleto, i miei amici e tante altre cose che, pian piano, andarono a dissolversi nel tramonto cupo di quella sera.
Cenai con un po’ di biscotti e latte che avevo nel bagaglio poi tentai di addormentarmi. Alle tre di notte ancora mi rigiravo senza pace fra le lenzuola, madido di sudore; sentivo il mio respiro sempre più pesante ed affannato ed un’insopportabile morsa alla gola. Decisi di alzarmi.
Mi sedetti in cucina stiracchiandomi un po’ e fu proprio lì che mi accorsi che quell’affanno, quello strano respiro continuava insistente, nonostante mi fossi calmato. Per un attimo si fermò poi riprese, trasformandosi in una specie di cupo rantolo... ma non ero io, veniva da lontano!

La filiale si trovava in centro, vicino a Piazza Esedra, dovevo quindi fare un bel pezzo prima con l’autobus poi con la metropolitana. Durante il tragitto ripensavo agli strani rantoli della notte passata.
Finalmente giunsi alla filiale con un leggero anticipo e subito feci la conoscenza del responsabile, un ometto basso, semicalvo e cortese. Poi un nuovo collega mi spiegò il lavoro, francamente semplice e ripetitivo, infine dovetti salire in Direzione per semplici formalità. Arrivò la pausa pranzo e mi recai in un bar davanti all’agenzia: quanta fredda indifferenza notai negli avventori così come nei passeggeri della metropolitana di quella mattina... Ero in un luogo strapieno di gente vociante, nel centro di una grande città ma mi sentivo maledettamente solo. Per un attimo, nella mia mente, risuonarono quei maledetti rantoli.

 

***

 

Sobbalzai sul letto... Erano le due di notte passate ed avvertivo il mio furioso battito cardiaco. Udii allora come lamenti continui, quasi una sorta di litania. Rabbrividii: “Che idiota! Sarà sicuramente l’inquilino del piano di sotto o quello di sopra!” - pensai tornando in me - “Invece di dormire, perdo tempo con queste stupidaggini!”. Ritornai a letto e provai a riaddormentarmi ma, in sottofondo, quegli strani rumori continuavano.

 

***

 

“Per cortesia potrebbe far presente ai miei vicini di far meno confusione la notte?”- chiesi al portiere, sforzandomi di essere gentile” - “Vicini? Quali vicini? Al quarto piano c’è solo lei.” - rispose l’ometto continuando a sfogliare svogliatamente un giornale. La cosa mi sorprese: “Ma... neanche al piano di sopra o a quello di sotto?” - “No... Gli unici inquilini sono solo al primo ed al secondo piano e poi lei al quarto. Tutto il resto è completamente vuoto. Sono appartamenti di proprietà di un’azienda informatica e della banca per cui lavora. Sono mesi che ci vogliono fare degli uffici” - “Ma allora chi si lamenta durante la notte?” - domandai perplesso. Il portiere si bloccò, chiuse il giornale e mi fissò: “Forse avrà sognato!...” - detto questo mi salutò ed uscì dalla guardiola.
Rimasi a riflettere per qualche istante poi mi diressi verso la fermata del tram. Mentre aspettavo alzai lo sguardo all’altezza del mio piano e mi accorsi di aver lasciato la finestra aperta ma... ma da dietro i vetri dell’appartamento accanto si notava una figura!
Provai per un attimo a distogliere lo sguardo poi, lentamente, riguardai: adesso la finestra dell’appartamento accanto al mio aveva il rotolante abbassato... Eppure quella figura c’era!...

 

***

 

Quella notte i rumori cominciarono più tardi, verso le quattro. Anche se non mi sentivo tanto bene, decisi di alzarmi e di andare a verificarne la provenienza. Uscii sul pianerottolo e mi avvicinai alla porta del mio vicinato. Improvvisamente, i lamenti cessarono.
Provai ad accostare l’orecchio alla porta. Dall’interno riuscii ad udire come un lieve fruscio, quasi un sussurro che mi chiamava: - “Sergio, Sergio, Sergio...” - Girai allora la maniglia, ma era come bloccata.
La mattina dopo arrivai tardi in ufficio. Ero stanchissimo ed agitato. D’un tratto il telefono sulla scrivania squillò: “Ecco la cazziata per il ritardo!” - pensai. Alzai la cornetta e risposi: - “Sergio, Sergio... Mi volevi venire a trovare?” - ancora quella voce! Riattaccai spaventato e cominciai a sudare freddo... come faceva a sapere il numero interno dell’ufficio?... Allora c’era veramente qualcosa nell’appartamento vicino al mio!
Verso le due della notte seguente udii d’un tratto rumori simili a folate di vento. Mi affacciai alla finestra. Fuori perdurava una temperatura mite, nonostante fosse gennaio inoltrato, era quasi luna piena e nell’aria c’era un gradevole odore di piante... ma non tirava un alito di vento. Uscii di nuovo sul pianerottolo e mi avvicinai alla porta del misterioso appartamento, usando la massima cautela per non far rumore. La luce a tempo delle scale si era spenta, ma il chiarore della luna che filtrava da fuori era sufficiente.
Inspiegabilmente provai un senso di gelo terribile, tanto che cominciai a battere i denti e mi accasciai a terra. Mi trascinai in casa mia e pian piano, tra mille brividi, quel freddo così intenso passò.
La mattina seguente splendeva il sole ed uscendo, notai che sul display del termostato digitale del pianerottolo compariva un -10. “E’ come se qualcosa di estremamente freddo fosse passato di qui” - dissi al portiere - “Ma no! Ogni tanto quest’affare va in tilt! E’ robaccia!...” - rispose lui con la solita rozzezza - “Ma veramente l’altra notte qui faceva un freddo!” - ribattei - “Freddo? Ma se in queste notti dormo con la finestra aperta!” - sbottò dando un colpetto al termostato poi aggiunse: “Ci penso io a chiamare il tecnico. Grazie per la segnalazione” - detto questo se ne andò borbottando.
Quella strana situazione però cominciava a spaventarmi. Cominciai allora, dopo il lavoro, a stare in casa il meno possibile.
Una sera mi attardai nel bar vicino al palazzo. Divenni amico del barista, un ometto molto gioviale.
“Ah, Dottò... Ma perché s’attarda sempre?” - mi chiese. “Mah, forse non riesco a dormire!” - risposi sorridendo. “Me dica la verità: vole restà svejo per non incontrà li spiriti?” - esclamò strizzandomi l’occhio. Rimasi sorpreso. “Quali spiriti?...” - risposi. “Ah, Dottò... Ce lo sanno pure li regazzini che nel palazzo al numero 22 de via de li Colli ce stanno li fantasmi! Ecco perché ce so’ tutte quell’appartamenti sfitti! ”-. “Non so... Non credo a queste cose!” - risposi fingendo indifferenza.

 

***

 

Passò ancora una settimana. Adesso, proprio nella mia camera, si era formata una strana macchia di umidità che ricordava un volto umano. Il portiere, e poi l’imbianchino, esclusero sia l’ipotesi di un’infiltrazione di acqua dal piano superiore, un appartamento deserto senza neanche l’allacciamento all’acquedotto, sia l’origine climatica, visto che erano mesi che non pioveva e fuori perduravano temperature primaverili.
Quella stessa notte, alle tre, udii una specie di sibilo continuo.
Ero ancora vestito, presi una torcia elettrica, uscii nel corridoio e mi avvicinai alla porta del mio vicinato: il sibilo s’interruppe.
Cominciai allora, cercando di non far rumore, a forzare la serratura con un coltellino che avevo in tasca; su tutto regnava un’atmosfera strana: l’aria della notte pesante ed opprimente, nessun rumore di traffico, una luna velata, quasi finta, inchiodata tra i tetti.
La serratura fece un scatto secco ed improvviso!... un brivido mi scosse le spalle e mi cadde di mano il coltellino.
Entrai nell’appartamento, molto più grande del mio, e provai ad accendere la luce ma era staccata; con la torcia illuminai resti di mobili, vecchi giornali ed altra sporcizia. Entrai poi in quello che doveva esser stato il salotto ove, da una grande finestra con i vetri rotti (mai notata dall’esterno!) filtrava la fioca luce lunare.
Fu qui che m’imbattei nella risposta a tutte le mie domande: in un angolo, pian piano, venne a materializzarsi la figura di un vecchietto, prima come parvenza di ombra poi sempre più definita. Era calvo e le orbite degli occhi erano vuote: mi sorrideva benevolmente.
“Chi sei?” - domandai spegnendo la torcia. Lui continuò a sorridere annuendo con la testa mentre, d’improvviso, una folata di vento mi fece sbattere in faccia la pagina ingiallita di un vecchio quotidiano. Lo spettro, continuando a sorridere, mi fece cenno di leggere.
L’articolo di cronaca, vecchio di quindici anni, riempiva l’intera pagina. Parlava di un dramma della solitudine, ove un ottantenne dal nome Orfeo Magnaghi, era stato ritrovato morto in casa; il decesso risaliva però ad un mese prima. Al solito si erano accorti del fatto solo a causa dell’odore nauseabondo che si avvertiva passando vicino alla porta. All’epoca l’edificio era completamente abitato.
“Mi consideravano un rompiscatole, uno che quando comincia a parlare non si ferma più...” - disse pacatamente il vecchietto. La voce era nitida ma lieve, quasi un sussurro. “Eppure ero gentile con tutti, avevo solo voglia di parlare un po’. La badante veniva a far le pulizie e basta... Non aveva mai tempo di chiacchierare. Poi non venne più ed allora mi sentii ancor più solo!” - Cominciai ad avvertire un nodo alla gola, ma non volli dir niente, intanto lui riprese: “Anche quella bestia di portiere non aveva mai voglia di far due parole... Sempre a leggere il giornale!... Poi una mattina non riuscii più ad alzarmi dal letto!...” - a quel punto si fermò fissando il pavimento, sorrise, e diresse le sue orbite vuote verso me: “E tu? Hai voglia di far due parole con me?” - “Certo... Ho tutto il tempo..” - risposi commosso.
Rimasi seduto su un vecchio sgabello ad ascoltarlo. Mi sembrò d’esser tornato bambino quando d’estate, raggiungevo i miei nonni ad Umbertide. Lì stavo ore ad ascoltare le storie che mi raccontava mio nonno.
Così adesso ascoltavo i racconti del vecchio Orfeo: i ricordi della guerra, il suo trasferimento dalla campagna alla città, i figli che emigrarono al nord, il boom economico, il ’68 con i capelloni, la morte della moglie, la solitudine...
All’alba i racconti finirono e, con le prime luci del sole, la figura cominciò a svanire. “Ciao Orfeo. E’ stato un piacere!” - dissi, ma il vecchietto non c’era più. Da quella notte tutti i fenomeni cessarono: Orfeo aveva finalmente trovato pace.
Dopo qualche tempo fui rimandato a Spoleto ove riacquisii la mia vecchia carica... Tutto tornò come prima.
Ancora oggi, quando ripenso a quella mia strana avventura nella capitale, non posso che rammentare il sorriso del vecchietto che, di tanto in tanto, mi appare in sogno più arzillo che mai.

Edoardo Cicali