Gyanavspar

I Gyanvspar erano antichi guerrieri persiani votati al suicidio in battaglia, precursori dei kamikaze.

 

La delicatezza della notte era svanita, da quanto non lo sapeva, ma ora lo sentiva che era morta, quella austera signora dal divino pallore. L’appiccicaticcio sudore che aveva addosso glielo rivelava con chiarezza, la delicatezza della notte era morta, almeno in quei luoghi.
Oscure contrade desolate che non erano sue, scorci di vicoli ammantati di decadente e triste poesia, la poesia di una donna morente.
Era chiuso in casa da un giorno intero, aveva bevuto, sì, e per quanto gli riguardava si sarebbe bevuto pure Apollo Creed.
Per sopprimere il dolore? Ma dov’era il dolore? Che cazzo di forma aveva.

 

^Di sontuosa donna ^. Disse il silenzio.
Cazzate.

 

Sentì bussare alla porta, andò ad aprire lento come l’ansia, nessuno.

 

“Se avessi una pistola sparerei un colpo in aria”. Pensò, ma la pistola non l’aveva, aveva persino perso il suo coltello, ali di lama svaniscono, avrebbe preferito fossero svanite nel ventre tonto e immeritevole di qualche essere inferiore.

 

^ Aprimi, sono l’alienazione. ^

Non poteva proprio sopportarla quella notte, stronzo scontroso, com’è che era diventato così?
Sempre a tirare conclusioni affrettate come si tira una daga contro un servo impiccione.
L’aveva lanciata lui una volta una lama nella notte, solo ora s’accorgeva di quanto era stato divertente, uno scherzo innocente e privo di odio.
Sentì un leggero frullio d’ali nella stanza, si guardò intorno al fine di identificare il nuovo venuto nella terra desolata dell’ubriachezza e del fosco pensiero.
Era un brufolo, un fottuto brufolo alato che planava e sbatteva le ali contro le pareti come una falena impazzita.

 

“Non mi piaci brufolo, è certo che ti schiaccerò, ti raschierò via con le mie unghie, ma prima vuoi spiegarmi cosa cazzo ci fai qui con ali di colomba?”
“Hai due tagli obliqui che dalla fronte solcano la faccia e ti ci formano una “X” sanguinante.” Disse il brufolo con voce squillante.
Ed era vero, aveva la faccia sanguinante e segnata da questa X scarlatta, uno spettacolo abbastanza trasportante da poter sedurre viole e violette della lontana Chissacazzodove.

 

“Volevi uccidermi con le tue unghie affilate e ti sei sfregiato la faccia. Sono più forte di te sai? Pensavi di poter semplicemente strapparmi con un po’ di dolore, ma eccomi, volato via e bello più che mai.”
“L’importante è che tu non stia sulla mia fottuta faccia, ora visto che questo colloquio crea seri dubbi riguardo la mia sanità mentale, è meglio che tu muoia, qualsiasi sia il tuo modo.”

 

E così gli lanciò contro una caraffa che schivata in maniera viscida e fastidiosa con vomitevoli fremiti d’ali si fracassò contro il muro.
Il brufolo se la svolazzava e ghignava maligno.

 

^ Aprimi, sono l’inquietudine ^

 

Fu una sedia il secondo oggetto a volare lungo la cucina, questa volta il brufolo si ritrovò schiacciato nella parete, appiccicato muoveva nervosamente le ali con contrazioni convulse.
Nella cucina di coltelli ce ne erano tanti, e il brufolo divenne tanti piccoli pezzetti di delirio.
Il silenzio tornò a vomitare note di depressa condizione.

 

“Penso che scriverò una lettera a Burzum, gli chiederò scusa per averlo messo in questo cd insieme agli Hades”. Disse lui ad alta voce.
“Noi non abbiamo parlato, lo giuriamo.”
“Zitto Remì, ma ti sei guardato? Dovrei ucciderti io stesso!”
Remì suona negli Hades, è certo che c’entra qualcosa riguardo la spiata ai danni del conte, dovreste vedere la sua faccia.

 

Ma chi cazzo parlava?
Era solo, il brufolo era morto, voleva fare a pezzi Remì degli Hades, come dargli torto, violenza efferata e atti sanguinari, come l’Orlando furioso quando perse il senno.
Che cazzo di epopea si stava tirando addosso?
Trascorsero circa due ore di puro silenzio, poi una sorta di monologo insensato tipico dell’ironia di chi è superiore.
Bussarono nuovamente alla porta, si alzò lento come l’ansia e andò ad aprire.
Era un cappio, o almeno le fisiche spoglie mortali di un cappio, per farla breve, praticamente questo scorsoio rompicazzo se ne stava lì per terra sul pianerottolo e sembrava proprio che fosse stato lui a bussare.

 

“Non posso certo mettermi a parlare con te, non credi cappio di merda? Non penso sia molto sensato chiederti che cosa ci fai qui, vedi, comincio a innervosirmi, prima è venuto un fottuto brufolo alato a rompere il cazzo, adesso tu, non sarete mica amici? Perché se è così ti brucio subito!”

 

Intanto si toccava le ferite a X che si era procurato (a detta del brufolo) inconsciamente.
Il cappio se ne stava muto per terra, così lui chiuse la porta alienandolo fuori e tornò in cucina.
Dritto davanti a lui si ritrovò un tipo che aveva una gran faccia da stronzo pur non essendo Remì degli Hades.
Aveva il collo un po’ torto e voleva fare il fantasma minaccioso. Lì? Proprio con lui?
Quanti ne avrebbe mandati ancora quella notte che gli stava sul cazzo?

 

“Volevi rubare il mio cappio? Io amo quel cappio, ho baciato il mio dannato cappio.” Disse il nuovo ospite.
“Ho capito chi sei tontolone, fai poco il duro, sei l’impiccato! Ti manda lei, ti manda la notte morta che mi sta sul cazzo.”
“Non si scherza con i morti...”
Il suo tono da spettro profondo shilleriano fu interrotto da un tavolino di vetro che gli fu fracassato dritto al centro del cranio.

 

^ Aprimi, sono il suicidio. ^

 

“Non devi fare lo stronzo con me, io sono infinitamente superiore ad ogni tuo minuto d’esistenza. Stai calmo impiccato suicida, perché quando avrò finito con te Ivan Drago si vergognerà di non aver fatto lo stesso con Apollo Creed.”
E così partì una lunga serie di inaudite azioni violente a cui parteciparono anche tutti i mobili della casa.
L’impiccato veniva sballottato da una stanza all’altra fracassando le cose.
La cosa più ironica era il fatto che il cappio non c’era, quel cappio d’amore che chissà quante verità racchiudeva.
Fatto sta che lui, il nostro Orlando delirante nell’epopea della “Notte che gli stava sul cazzo”, l’aveva realmente baciato quel cappio, l’aveva amato, e stava permettendo alle sue spire di avvolgergli dolcemente il collo. Ma di certo lui era diverso, non come questo patetico impiccato segaiolo. Lui era un guerriero del dolore, lui era il solo ed unico Gyanavspar in quella notte.

 

“Lasciami, lasciami maledetto, sei tu che mi hai chiamato, non vedi quanto soffro? Perché non riesci ad ignorarmi?” disse l’impiccato mentre lui stava lavorando sodo per rompergli l’ultima gamba.

 

“Sai che c’è? Non provo nemmeno un po’ di pietà per te coglione, anzi ti odio, sei tu che hai bussato alla mia porta e la colpa è di quel cappio. Se vuoi vantarti con me di saperne di più sul dolore sappi che il sacrificio è altra cosa, ora taci e non rompere le palle perché devo trovare un modo per polverizzarti e non vedere più la tua faccia da stronzo.”

 

L’impiccato imprecò ancora perché si aspettava compassione, quanto era stato arrogante.
Tra le macerie della casa il Gyanavspar riuscì a trovare un martello, lo schiacciò così a lungo che ormai non sembrava più l’impiccato, era semplicemente crema di sangue.

 

“Penso che così possa andare, dannato stronzo, sembravi un sorcio che si fa una sega.”

 

Si distese sul divano, era veramente stancante avere a che fare con questi incubi metaforici, certo non avrebbe mai preso sonno, chissà se il mattino gli avrebbe rivelato qualcosa. Fissò l’orologio, dentro vi era il cappio e nulla più, nè numeri nè lancette, solo il fottuto cappio.
Scoppiò in lacrime, un senso di sconfitta così profondo da spaccargli l’anima si insinuava in lui come un serpente chiodato.

 

^ Aprimi, sono la seduzione del suicidio. ^

 

Pianse e al tempo stesso si avvicinò all’orologio per farla finita, il cappio se ne stava lì apparentemente passivo, ma in realtà un po’ lo provocava come una dolce puttana.
Quando tutto sembrava essere perduto, quando il Gyanavspar sembrava ormai fottuto, un salvatore divoratore giunse dal profondo dell’anima, costui aveva sul volto il superbo, divino sorriso dell’ironia, Durlindana con la sua furia angelicata spaccò in venti piccoli frammenti l’orologio.
Era Orlando furioso in persona, giunto a salvare il nostro stanco amico la cui ironia stava per essere soppressa.
Così il Gyanavspar scoppiò a ridere, una fragorosa, stupenda risata che si liberò con ali di angelo nella notte che gli stava sul cazzo, quella risata squarciò la tenebra come solo Durlindana poteva fare.

 

“Cazzo, le mie risate diventano spade.” Pensò, ed era realmente così.

 

Il cappio intanto strisciava ai piedi di Orlando che sembrava ignorarlo, pensava solo a ridere insieme al Gyanavspar, ridevano come due fratelli gemelli di tredici anni.
Poi finalmente Orlando afferrò il cappio e lo inghiottì mentre rideva ancora, lo vomitò, e il cappio era solo una donna.

 

EPILOGO
“Mi dispiace che vai via!” Disse ad Orlando.
“Ragazzo, tu devi ridere perché sei potente, Durlindana è la tua spina dorsale!”

 

Così lui annuì e Orlando volò via su ali di angelo a squarciare la notte che gli stava sul cazzo, proprio come aveva fatto prima la risata.
Un attimo dopo bussarono ancora alla porta, erano tipo le sei del mattino, la casa era distrutta ormai.
Chi cazzo era?
Andò ad aprire, era Remì degli Hades. Scoppiò in una risata e dopo averlo colpito con un corposo pugno in testa lo inseguì per le scale illuminate dal torbido mattino, che naturalmente gli stava sul cazzo.

Davide Giannicolo