Maniche cucite

Robert Hewitt aveva voglia di lacerare carne.
Ricordava le sue mani irsute ma con le unghie ben curate, attraversate da grosse vene verdi, di quel verde proprio del grosso vetro di bottiglie per vini importanti. Vedeva nella sua mente le unghie affusolate che grattavano il velluto e scostavano i capelli dietro le orecchie. Le vedeva solo nella sua mente perché le maniche cucite, di candido cotone, della sua camicia, perfettamente abbottonata dietro, dal primo bottone fino all’ultimo, gli impedivano di scorgere anche un solo pollice quadrato della sua pelle olivastra.
Da quasi una settimana doveva condividere con dei muri imbottiti il giorno e la notte, ormai indistinguibili. Unico contatto con l’esterno una piccola feritoia troppo alta per potersi affacciare e troppo bassa per far penetrare i raggi del sole e della luna. L’unico scandire della giornata era costituito da quello spioncino metallico che ogni giorno si apriva, con modi sgarbati e secchi, e lasciava il posto ad occhi verdi feroci. Lo spazio di qualche istante, era sufficiente ad esaminare gelidamente l’anima del recluso ma non era mai abbastanza lungo per incutere la sensazione della presenza, per diradare la solitudine.
Il solo sollievo alle membra stanche, lancinanti dolori al quinto giorno cominciavano a torturargli le scapole, era il materasso direttamente posato sul pavimento, duro e freddo.
Quella stanza, lenzuolo bianco che ricopre il cadavere, sudario della morte dell’anima, cieco velo della mente, ultimo sepolcro per l’ultimo dei derelitti, era studiato volutamente per non dare riferimenti, per spiazzare anche la vista. Il parallelepipedo di flessuoso lattice poggiato per terra, il rettangolo satinato della porta metallica, la fessura e il circolare foro della turca sul pavimento erano le uniche interruzioni a quei muri incredibilmente regolari, ma anche esse geometricamente perfette, senza sbavature, tremendamente proporzionate.
Robert si era abituato a guardare avanti, non più in alto, perché se le pareti erano abominevolmente sorde, mute e paralitiche il soffitto sembrava dovesse crollargli addosso ad ogni istante. E non chinava più nemmeno il capo. Sotto la camicia di forza era nudo e oramai provava fastidio anche ad osservare le proprie nudità, quasi gli venivano conati di vomito. Anche al suo puzzo di sudore e di sporco non riusciva mai ad abituarsi.
Un altro sbatter metallico passò prima che il pannello di ferro si riaprisse. Lei indossava un camice, anch’esso bianco ma con una cuffietta verde in testa che stonava con il resto dell’uniforme, si ripromise di farlo notare al signor Johnson, non appena l’avrebbe incontrato in Direzione.
- Signor Hewitt, è ora di uscire, ora le slego le maniche, indossi questo accappatoio e mi segua pure.
Robert si sporse un po’ verso destra per leggere meglio il nome stampato sul cartellino appeso al camice della donna che, rendendosi conto dello sguardo dell’assistito e di essere stata in qualche modo identificata, sbiancò in volto.
Nell’andito molto illuminato, con luci calde applicate alle pareti del corridoio, per la prima volta incontrò un altro uomo, era per lui un’esperienza nuova, non gli era mai capitato in precedenza di avere contatti con altri reclusi e rimase profondamente sorpreso. Pensava facesse parte delle regole che i reclusi non potessero in alcun modo incontrarsi. Un altro appunto, ancor più grave del primo, da presentare al signor Johnson! L’ospite incrociato sull’andito aveva il viso completamente liscio e un paio di baffi che parevano applicati in seguito, come per una commedia teatrale, quasi dovessero staccarsi da un momento all’altro per suscitare l’ilarità del pubblico durante lo spettacolo. Dietro di lui una ragazza dalle fattezze nordiche, con una lunga coda di capelli biondi, tenuti insieme da una fascia di pelle nera, una tuta vagamente da squadrista con gli anfibi molto evidenti e con un manganello alla cintola. Spingeva l’uomo tenendogli una mano sulla spalla destra, quasi ad accompagnarlo in un rito liturgico. Li persero di vista appena svoltato l’angolo del corridoio e dopo pochi secondi si udì una porta metallica richiudersi alle loro spalle.
- Prego, si accomodi, e suoni il campanello posto al di sopra della vasca per qualsiasi esigenza.
Diede quell’ultima indicazione con un sorriso appena accennato ma carico di significati, quasi a proporsi in qualche modo per riparare alla distrazione della cuffietta. Ma Robert non era quel tipo di uomo, lui era fedele a sua moglie, l’amava. Quel sorriso, decise tra sè, aggrava invece che migliorare la posizione dell’inserviente, i patti erano chiari, l’uniforme doveva essere bianca! Era una mancanza troppo grave!
Non appena la donna chiuse la porta alle sue spalle, diede un giro di chiave, si tolse l’accappatoio facendolo scivolare scomposto sullo sgabello accanto al bordo dell’enorme vasca e si immerse nell’acqua calda carica di sali da bagno. Tutto era come si aspettava, due dita di whisky nel bicchiere a fondo largo nella piccola mensa ricoperta di marmo scuro e in sottofondo, a volume quasi impercettibile, i bisbiglii di sonate al flauto di pan. L’odore di pulito sulla pelle, appena si fu asciugato e rasato in viso, lo svegliò come uno schiaffo. Ora il corpo era pronto per indossare il suo pregiato abito cucito su misura in Italia, quelle scarpe lucide che odoravano di pelle, morbide come un guanto e gemette quasi nel serrare il nodo della cravatta assestandolo sulla camicia con le pieghe quasi calcolate al millimetro.
Fuori faceva freddo, sferzate di vento accompagnate da scrosci irregolari di pioggia, a vederli dalla finestra, all’interno di una stanza ben riscaldata, consigliavano di abbandonarsi ad un caldo cappotto di montone prima di uscire dall’edificio.
Uscì da una porta diversa da quella dalla quale era entrato. Come sempre all’ingresso del Royal StarGold Grand Hotel, lo attendeva una grossa berlina nera, con la portiera aperta e l’autista sull’attenti all’estremità del tappeto rosso appena sotto il fondo della vettura.
Il signor Johnson, appena rientrato, apposta per l’occasione, dalla sua casa in Svizzera, accompagnò il dottor Hewitt discorrendo amabilmente, con quel pizzico di adulazione simile a quella del mendicante nei confronti dell’unico uomo che quella mattina ha gettato una banconota e non monetine nella sua scatoletta di cartone.
La portiera si chiuse e l’automobile partì velocemente lungo il viale. Il divano posteriore della vettura, lussuosamente trapuntato in pelle color panna, era il suo luogo preferito per perfezionare le transazioni d’affari. Abbassò con una lentezza quasi motorizzata il bracciolo centrale e vi posò sopra il portatile. L’home page predefinita settata sulle quotazioni in borsa lo immerse in un batter d’occhio nel suo regno dando una spazzata energica e finale alla settimana che si era lasciato alle spalle.
- Papà, è bello quando vieni tu all’uscita di scuola.
Un visino bianco latte, incorniciato da capelli biondissimi raccolti in due codette simpaticamente infiocchettate fecero capolino dal finestrino della macchina.
- Sali su, birichina, non vorrai far scendere George, ormai sei grande, ce la fai da sola a salire.
- Papà, posso stare davanti affianco a George, voglio vedere la strada.
- Se George è d’accordo, ok.
E come non si poteva essere d’accordo di fronte a quel sorrisino furbetto fatto di tanti piccoli denti bianchi!
- Ora facciamo una sorpresa alla mamma e andiamo a prenderla all’uscita dall’ufficio.
- Siiii – urlò per l’eccitazione la bambina – che bella idea!
Ora erano tutti e tre intorno al tavolo, a casa, in una tavola imbandita dai colori caldi.
- Caro, devo dire che dopo la tua settimana da solo alle terme ti trovo sempre più in forma.
- E dire che l’idea che andassi da solo ti aveva fatto sospettare avessi un’altra donna!
- Mi devo ricredere, anche se il fatto che tu voglia sempre andare senza di me e Annette non lo capisco, ma a questo punto, visti i risultati, lo accetto volentieri – disse arrossendo in volto a bassa voce perché la piccola Annette non sentisse.
- Annette è ora di andare a letto, andiamo a lavare i dentini e poi a nanna, domani si va a scuola.
Daisy è mia moglie da ormai otto anni, è meravigliosa, pensò tra se Robert. La voce di Daisy che canticchiava nel bagno adiacente la lussuosa camera da letto, suonava melodiosa come il canto all’unisono delle contadine che tornano insieme dal fiume. Robert, in vestaglia da notte, stava seduto accanto al tavolinetto illuminato dalla lampada a braccetto, a leggere la corrispondenza arretrata della settimana appena trascorsa.
La perversione. C’è chi frequenta club particolari, lo facevano anche suoi colleghi in affari, disturbati sessualmente, c’è chi è dedito all’alcool o addirittura picchiava la propria compagna per il gusto di farlo o frequentava prostitute per non essere giudicato nelle sue mediocri prestazioni sessuali. Lui non aveva questi vizi, queste devianze, sentiva solo il bisogno, per una settimana ogni tre mesi, di essere malato mentale. L’idea faceva sorridere. Non gli era mai passato per la mente di esserlo veramente, o forse voleva solo punirsi per quel irrefrenabile desiderio di lacerare la carne.
Ricordava il volto sbigottito per la sua richiesta di allestire una stanza con quelle caratteristiche in un albergo che, dietro la facciata di grande e lussuoso luogo di sosta e riposo per miliardari, celava un intricato susseguirsi di camere per soddisfare tutti i vizi di quei repressi e complessati mostri, figli deformi del denaro. Ma lui non era matto, non era come quelli, non faceva del male a nessuno, soddisfava una piccola esigenza, strana è vero, originale, un po’ bizzarra, opportuna nei periodi in cui più si acuiva il suo desiderio di lacerare la carne. Niente di meglio che avere le mani legate.
La voce soave di Daisy continuava a giungere dalla sala da bagno, interrotta poche frazioni di secondo dal leggero trucco e dalla distrazione di una spazzolata ai capelli. Si stava facendo bella per lui, come ogni volta, dopo ogni suo ritorno, in modo diverso e speciale rispetto alle altre notti. Tutto era a posto, se ne convinse. Forse però qualcosa quella volta in realtà non lo era. Un retrogusto amaro, per poche frazioni di secondo ancora l’olezzo del suo corpo sporco, forse un’errata impressione, forse un estemporaneo vacillamento dei suoi sensi. Tutto era a posto, se ne convinse, ma quel tagliacarte luccicava troppo ai suoi occhi.

Simone Bellisai

Sono Simone, sono nato nel 75, scrivo racconti da parecchi anni. Scrivo horror, thriller, gialli, noir e racconti demenziali. Mi piace leggere qualsiasi cosa, anche l'elenco dei programmi sulla targhetta della lavatrice! La mente mi permette di vivere in mondi che fisicamente la mia pigrizia demolirebbe.