Terminal Shock

Al Chamisky aveva quarantaquattro anni, sua moglie Claire era di un quarto di secolo più vecchia di lui. Si erano sposati diciotto anni prima. Erano senza figli, senza amore. Avevano in comune solo un matrimonio, un mutuo trentennale, e una tonnellata di disprezzo. Il carattere di Claire era peggiorato con il tempo. Prima così gioviale e dallo spirito leggero, era diventata acida, come se, a scorrere nelle vene ci fosse stato latte irrancidito al posto del sangue. Per una qualche forma degenerativa dell'amore, il loro rapporto si era tramutato in una grottesca simbiosi, una specie di lichene tra alga e fungo, o quello ancora più depravato tra la merda e il merdaiolo: erano perversamente marito e moglie. Al non riusciva a lasciarla, proprio non aveva la forza per farlo. Non si ricordava nemmeno da quanto tempo loro due non scopavano più: sicuramente da un migliaio di capelli fa. Le era sembrata così religiosamente tenera, simmetricamente minuta, e dagli occhi pericolosi, sottili e incendiari come bocche di fuoco di due calibro 22, pronti a trapassarti il cuore, eppure...
Forse la colpa di quel suo grosso errore doveva darla alla miopia, o alla fumosa penombra di quel cinema d'essai, dove si erano incontrati anni prima, che puzzava terribilmente di piedi e di popcorn lasciati a marinare dentro preservativi usati. Al in quel cinema ci lavorava la sera, faceva la maschera, e Claire in quel cinema quella sera ci guardava un film coreano, un remake di Chunhyang jon dei fratelli Yi. Nella sala c'èrano solo due spettatori, lei e un vecchio balordo, che due file dietro la puntava come se la donna avesse avuto un venefico ragno arrampicato sul collo e lui stesse per piombarle addosso a salvarle la vita, ma da come si dava da fare con una mano, sembrava che una forza misteriosa nei pantaloni glielo impedisse. Claire era troppo presa dagli interessantissimi dialoghi sottotitolati tra Chun-Li e la striminzita Yao Po, per accorgersi di quello che le capitava intorno: si era tolta le scarpe da tennis e aveva i piedi nudi in bella mostra sullo schienale della poltroncina di fronte. Al le si era avvicinato richiamandola alle regole basilari della buona educazione, ma più che altro si sentiva in dovere di non lasciarla in balia di Mr. Aracnosega. Da quel momento le loro vite non sarebbero più state le stesse.

 

Durante la giornata Al pensava spesso a quali strade diverse la sua vita avrebbe potuto prendere se non avesse incontrato Claire. In quei momenti di piena consapevolezza del 'forse', aveva delle apparizioni come un Sant'Antonio sbronzo di misticismo post-nucleare. Nelle sue visioni non c'era più nessuna traccia delle grosse natiche cellulitiche di quella stronza di Claire, il cinema non esisteva più, neppure la Corea esisteva più, a Hollywood tutti i soldi destinati al cinema erano stati convertiti nel nucleare, le uniche maschere che si vedevano in giro erano le maschere N.B.C.
Ma poi un dannato mostro sbucato dal suo subconscio, lo afferrava e lo ficcava come il genio della lampada al contrario, dentro una bottiglia da mezzo litro di niente, che aveva per etichetta "Al Chamisky - Da servirsi freddo o da non servirsene affatto".
Ma Al una notte riuscì a stapparsi, e brindò alla sua libertà.

 

Claire dormiva, voltata su un fianco verso di lui. Respirava rumorosamente, sembrava un cane usato in un esperimento da laboratorio per sapere come va a finire un polmone dopo due milioni di sigarette fumate. Al allungò la mano sinistra e aprì il cassetto del comò. Prese un tagliacarte a forma di spada - un souvenir del loro romantico viaggio di nozze a Toledo - lo sfoderò con epica drammaticità, ammirandone la lama brunita e i ghirigori moreschi. Affondò un colpo secco nel ventre molle di Claire. Lei fremette come un'anguilla carezzata da dodicimila volts.
Si svegliò più stupita che spaventata. Più esterrefatta che dolorante. Ma quando guardò verso la propria pancia, realizzò tutto il terrore che le veniva fuori e non lo poteva più ricacciare dentro, perché spruzzava in ogni dove. Le sue unghie laccate di sangue, raschiavano risentite il dorso della mano di Al, che le spingeva tutta Toledo fino in fondo, fino a frantumare qualcosa di duro, fino a volerla passare dalla parte opposta e poi tornare indietro, e ricominciare avvitando il pugno, ancora e ancora. Claire affrontò quindici secondi di dolore impetuoso recitando vocalizzi infernali, poi morì, perdendo un lento respiro come se si fosse sgonfiata. Al rimase a fissarla per un tempo indefinito. Era così placida e muta. Questo lo sconvolse più dell'omicidio in sé, chissà perché era convinto che i morti ammazzati non avrebbero mai smesso di gridare. Sul viso di Claire, la morte iniziava già a tratteggiare i lividi cieli e le grigie distese dei perduti paesaggi della decomposizione.

 

Al indossò il cappotto. Trascinò per i piedi Claire, rotolando il cadavere nel tappeto di pelle di pecora del Kazakistan, che stava tra il letto e l'armadio. Fuori nel cortile la macchina aveva un portabagagli bello spazioso. Al girò le chiavi nel cruscotto. La macchina lo accompagnò per le strade desolanti, senza meta e senza tempo. Sfrecciando sotto semafori che pulsavano stanchi dei bagliori arancione. Attraversando quartieri che non lo riconoscevano più o facevano finta di niente. Il volante reggeva la sua mano, al dito medio la fede d'oro, l'oro era opaco, la fede avrebbe dovuto tenerla all'anulare ma era troppo grande. Una volta gli si sfilò mentre sondava le Cavità uterine di Claire: dovettero ricoverarla d'urgenza, fu l'inizio della fine quello.
"C...Claire!"
Quel nome pronunciato balbettando, lo scosse come un vento freddo e gli condensò nella mente un vago pensiero.
Dov'era Claire? Era con lui. Era sempre stata con lui, Claire.
Al si ricordò di un luogo, dove loro non erano più stati da molto tempo. Verso le colline, dove si appartavano per fare l'amore quando erano fidanzati. Al percorse alcuni chilometri, salì per una stradina tutta pietre e tornanti, arrivò a uno spiazzo, spense i fanali e scese dalla macchina.

 

Da quell'altezza il panorama era struggente, soprattutto dopo il tramonto; quel luogo gli sussurrava un silenzio armonioso e naturale, svelandogli che in realtà non c'era mai stato nessun suono nel mondo. Le luci della città brillavano come fitti e regolari fili di ragnatela, per disperdersi in gocce luminose, laddove finiva la periferia e si curvavano cupe le gobbe delle colline. Sopra la testa, la macchia siderale, profonda come un oceano nero, che a guardarla, faceva venire le vertigini. Ma, quando l'aria non era troppo umida, lo sguardo si perdeva tra le vorticose spruzzate della via lattea, le sue esplosioni di fuochi d'artificio congelati nelle tenebre, e tu sembravi così tremendamente inutile e finito, da volerti aggrappare alla vile terra pur di non essere risucchiato in quell'abisso senza pietà.
Era quasi l'alba. In basso, alla sinistra di Al, Venere ammiccava timida ed eterna, e la foschia le si strusciava davanti, vestendola di filamenti d'opale. Era l'unica luce alla quale era sicuro di poter dare un nome, perché la donna che giaceva sventrata nella sua macchina, molti anni prima gli aveva dato una piccola ma preziosa lezione di astronomia.
"Si chiama Venere come la dea dell'amore," disse Claire indicando un puntino luminoso alla sua sinistra. "In basso, inginocchiata sotto la cintura di Orione, la vedi?" Poi si voltò verso Al, aveva ancora impresso negli occhi quel luccichio, e proseguì: "Le stelle le distingui dai pianeti perché soltanto loro brillano di luce propria."
"Ma allora i tuoi occhi sono stelle." Rispose Al.
"Perché?"
"Perché brillano, bimba."
Si baciarono. Forse nello stesso punto in cui si trovava adesso Al. Quei fotogrammi colati dal passato, gli provocarono un brivido al miocardio, poi i ricordi uscirono a fiotti, e riaffiorò anche quello che era avvenuto dopo quel lungo e vibrante concerto di lingue: ora il miocardio se lo sentiva che collassava più in basso. Tornò alla macchina, trascinò fuori la moglie dal portabagagli, la distese sul sedile posteriore e aprì il tappeto di pecora tutto impiastricciato di emoglobina che la confezionava come una crisalide pelosa.
Supina e inerme stava Claire, con la bocca deliziosamente socchiusa e contratta. Gli occhi sbarrati di stupore infantile, che non brillavano più, e mancavano di profondità perché la morte le aveva annegato l'anima. Il tagliacarte ancora piantato sopra l'ombelico, una cruenta e lacerante erezione di metallo. Al lo sfilò, le sollevò la camicia da notte color miele, si tirò fuori l'uccello e lo precipitò nella ferita fiorita di sangue bruno. La pelle di Claire era velluto ghiacciato, ma dentro, il corpo era tiepido e melmoso. Al era sicuro di non aver mai goduto così tanto in quel sacrario di carne, anche se oramai aveva acceso candele votive in tutti i suoi tabernacoli del piacere, ma decisamente quel taglio era la parte migliore.
Ma Al non era certo sul dove il suo cazzo stava impetrando la sublime deità dell'orgasmo. Gli balenò alla mente la stramba idea che, se avesse attraversato lo stomaco e fosse entrato a contatto con i succhi gastrici, si sarebbe ritrovato in una situazione a dir poco difficile. Lo tirò fuori. No, era ancora tutto intero, si rimise al lavoro.
Cominciò a provare una punta di rimorso per averla ammazzata: "Avrei dovuto ferirla e basta, magari un taglietto qui e uno lì," pensò "sono troppo impulsivo, me lo diceva sempre la mia Claire."
Ad Al sfuggì una lacrima d'iridio, che piovve sulla guancia color neve azzurro di lei, scorrendo rapida fino a scomparire tra le labbra velate di grigio. Al di riflesso percepì un sapore salato. Sentiva che il cuore si stava sciogliendo, liquido ed eruttivo risaliva l'uretra. L'amore si stava risvegliando, esplosivo.

 

"Levami subito il cazzo dall'ombelico o giuro su dio che ti denuncio, lurido maiale." gridò Claire saltando giù dal letto come se avessero appiccato un incendio al materasso "A chi pensavi, eh? A quelle troie che vedi su internet? Pensavi di fartene una?"
"Claire no... no. Stavo sognando te. A noi due che facevamo l'amore su quella collina dove andavamo da fid.."
"Quale collina, scemo!" rispose lei, ma da un impercettibile guizzo di sopracciglia sfuggì: "Su quella collina ci abbiamo fatto le più belle sgroppate della nostra vita, avevo la cosina viscida come la barba di una medusa." ma subito Claire la ricacciò dentro per paura che il marito ne traesse una qualche soddisfazione.
"Non ti ricordi che panorama si vedeva lassù? Le stelle e Ven..."
"Mi hai sporcato la camicia da notte, brutto schifoso, ora devo andare in bagno a lavarmi. Vaffanculo." Claire scese dal letto, trattenendo con due dita un lembo della camicia da notte chiazzato di macchie color sborra su miele.

 

Al si lasciò morire nell'incavo del cuscino. Era ancora su quella collina, ancora ad annusare l'aroma di quella pace perfetta, di quell'aria tiepida dove fluttuava una dolce brezza. Poi un crepitìo arrivò dal basso, viaggiando sulle ali di un mostro orribile, che lo agguantò, cercando di trascinarlo via con sè, per rinnovare il suo inferno oligominerale. Ma Al riuscì a divincolarsi, a trovare scampo dalla sua stretta fatale. Da quel muso enorme inclinato verso lui, usciva un minaccioso e monotono ronzio con la stessa frequenza della voce stridula di Claire. Al non riusciva a distinguere le parole tanto il rumore era insopportabile e morboso, sembrava un mantra recitato da un demente. Poi, un grido infranto da un frastuono terribile, uno schizzo pesante lo colpì in viso, come se l'animale gli avesse cagato addosso tutto il suo odio letale.

 

Al aprì gli occhi, accanto a lui, Claire: le mancava tutta la parte sinistra della testa, era sparsa qua e là. Un po' ce l'aveva lui sulla faccia, un po' era appiccicata alla parete e stava scivolando lentamente sulla superficie liscia dello specchio, lasciando una scia decorativa come la bava di una lumaca dai minuti contati. E pensare che di fronte a quello specchio lei ci passava ore a rifarsi il contorno labbra: Claire odiava le lumache.

 

Al guardò fuori della finestra. Quella puttana di Venere era ancora lì, lo inchiodò senza scampo con il suo occhio fisso e nudo. Al teneva ancora stretta in pugno la pistola calibro 22, un regalo per il loro diciottesimo anniversario di matrimonio. Si ficcò la canna ancora fumante in bocca, un gusto denso e ferroso fu la sua ultima sensazione.
"Questo fumo è una merda." Pensò, prima di piombare a precipizio nell'incoscienza.
Era il 22 agosto. Voyager 1 aveva appena scavalcato il Terminal Shock, salutava Plutone e viaggiava senza biglietto verso l'infinito.

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