Epistola

Roma, 21 aprile 170
Avidio Cassio, generale del corpo dei pretoriani. L’Imperatore Marcus Aurelius Antoninus deve essere scortato fino ad Aquileia a causa dei barbari penetrati nuovamente nei limes settentrionali. Il corpo dei pretoriani oggi onora la perdita dell’Imperatore Lucio Vero, morto nel 169, di ritorno da una campagna militare con l’Imperatore Marco Aurelio, tra Concordia e Altino. L’esercito sembra essersi ripreso dalla peste che lo colpì duramente quell’anno.
Le tre legioni iniziano a muoversi. Quindicimila soldati marciano sotto l’insegna dell’Aquila uniti da uno spirito comune. I cinquanta soldati del corpo pretorio fiancheggiano il nostro Imperatore. Le porte di Roma si aprono al nostro passaggio. Il popolino urla estasiato. Schiavi, liberti, senatori, tribuni e altri ancora urlano il nome di Marco Aurelio. Il sole è alto nel cielo. La pesante maglia di ferro ricoperta dalla lorica fa sudare e rende difficoltosi i movimenti.
Appena fuori Roma la strada è ben curata e la nostra marcia procede senza difficoltà. Le nostre spie non hanno riportato nessuna notizia infausta per ora. L’esercito si snoda per miglia e miglia verso l’orizzonte. L’aria è piena di suoni e rumori: dal battere degli zoccoli dei cavalli al rumore degli scudi e dei gladi. Anche i sandali chiodati, per avere maggiore presa sul terreno, rimbombano nell’aria pesante. Verso sera l’avanguardia si prepara ad erigere un campo protetto da mura di legno e un piccolo fossato. La notte passa tranquilla. All’alba il signifer fa segno di lasciare il campo.
La marcia procede attraverso un fitto bosco. Ci vogliono circa quattro ore per passare la fitta vegetazione. Sbuchiamo in una piccola radura quando il corno da guerra suona per due volte: spie. Io e altri dieci soldati ci portiamo verso il centro del campo. Vedo luccicare qualcosa. Estraggo il gladio e miei uomini fanno altrettanto. Raggiunto un piccolo masso vedo una picca infilzata nel terreno. Appena sopra una testa ricoperta da un elmo romano. Il sangue non si è ancora indurito. Altre tre picche più avanti con lo stesso macabro trofeo. Mi giro per raggiungere l’Imperatore quando una freccia si pianta nel collo del pretoriano più vicino a me.

Colpisco il cavallo con furia per raggiungere l’imperator Marco Aurelio. Altre frecce si alzano nel cielo. Il corno da guerra squilla per tre volte. Il corpo dei pretoriani si chiude a testudo intorno all’Imperatore. I miei uomini cadono uno dopo l’altro. Una freccia mi trapassa la lorica all’altezza della spalla. Finalmente raggiungo l’avanguardia e vedo i legionari muoversi verso il fronte nemico. Marco Aurelio dà ordine al generale Valerio Errio di muovere contro il nemico. Un grido si alza nel cielo blu come il mare: per Roma e l’Impero! I due fronti vengono a contatto. Il murus regge l’impatto. I legionari avanzano e si danno il cambio con i manipoli. La seconda legione arriva venti minuti più tardi e come un fiume in piena travolge i barbari. Ora, quasi diecimila legionari sono sul campo di battaglia. Non riesco a vedere i nemici perché questi sono a ridosso del bosco. Un corno suona. I nemici si ritirano gridando. I legionari si fermano. L’imperatore avanza scortato dai miei uomini. Decide di fermarsi per far riposare i legionari. Aspettiamo l’ultima legione che costituisce la retroguardia. Passano due ore quando finalmente vediamo un uomo a cavallo. È una staffetta. Mi viene portato da due legionari. È un uomo alto, magro, adatto a quel tipo di lavoro. È sporco di sangue. Quello che riporta mi preoccupa non poco. La legione Rapax è stata attaccata e distrutta da circa ventimila barbari. Corro dall’Imperatore. Appena Marco Aurelio sente la mia notizia dà ordine di lasciare subito la pianura e di dirigersi verso Aquileia. Dopo un’ora di marcia veniamo attaccati da quello che sembra un piccolo distaccamento. I legionari vincono senza difficoltà. Avanziamo tranquillamente quando sbuchiamo in un’ampia radura. Un fiume di circa trenta-trentacinquemila uomini ci sbarra la strada. Marco Aurelio dà ordine ai legionari di disporsi in formazione compatta. Le due legioni si muovono velocemente. Dopo circa dieci minuti il nemico avanza. Uomini vestiti di pelli, tinti di nero e verde, urlano cose incomprensibili per noi “civilizzati”. A meno di venti passi, il nemico aumenta l’andatura. I legionari su ordine del signifer scagliano i pilum. La prima linea nemica cede. I nostri soldati si scagliano verso il nemico. Lo scontro dura tutto il giorno. Le nostre due legioni tengono testa ai nemici più numerosi. A sera inoltrata, quando i nemici si ritrovano da trentacinquemila a diecimila uomini, il corno da guerra riecheggia nell’oscurità. Pensiamo di aver vinto. I legionari nelle ultime file iniziano a gridare. Il nemico indietreggia. Si apre. Animali mai visti prima si scagliano con furia omicida verso i legionari. I soldati cercano di parare con lo scudo ma le fiere hanno la meglio. I legionari cadono mutilati. Dopo circa venti minuti il nostro esercito si ritrova decimato. Marco Aurelio grida di ritirarsi. Scappiamo verso il bosco. Quelle fiere simili a leoni c’inseguono. Sporchi di sangue, stanchi per la battaglia, appesantiti dalla lorica e dalle armi ci trasciniamo all’interno della vegetazione.

 

Sono passati tre giorni dal massacro. Siamo rimasti in duemila. Durante la marcia, nel buio della foresta, sentiamo le grida dei nostri compagni cadere tra le fauci di quelle bestie infernali. La notte è qualche cosa d’indescrivibile. Occhi color del fuoco si muovono tra gli alberi. Ancora grida di soldati, miei “fratelli”.
È il sesto giorno. Sono esausto. Siamo rimasti in ottocento. Le bestie non si fermano. Siamo senza cibo e senza acqua. Il nostro Imperatore è fiducioso. La verità è che ci siamo persi nella foresta. Non rivedremo mai più Roma. Sento un rumore di foglie spezzate. Mi giro di scatto. Stanno venendo a prendermi...

Claudio Bertolotti