Gli Estranei

Fuori l’aria fresca calma rendeva silenziosa la notte e mille stelle brillavano in cielo, la luna, uno spicchio esile e pallido, bassa all’orizzonte. Era stata una gradevole giornata, calda e profumata. Maira aveva fatto una piccola gita, solitaria, nella campagna che circondava la casa dei nonni paterni. Dopo cinque ore passate a correre, disegnare e osservare era tornata stanca a casa, ma con una gran voglia di scrivere tutto sul suo diario.

 

Alla luce della lampada a forma di nano accovacciato stava annotando ogni pensiero e sensazione allorché la corrente saltò; fu solo un attimo e tutto tornò come prima. Maira non ci fece caso e continuò a scrivere, velocemente, dato che aveva deciso anche di studiare un po’. Dopo aver terminato, ripose il diario nel secondo cassetto della scrivania e si mise a leggere, svogliatamente. Accese un bastoncino d’incenso, alla menta, sfogliando con stanchezza le pagine del libro di scuola.

 

Alla fine Maira si addormentò placidamente sul suo piccolo letto; l’odore di incenso, ormai dissolto ma ancora percepibile nella stanza, l’aveva cullata fino all’arrivo del sonno e, abbandonando i libri su cui stava studiando, era scivolata tra le soffici e calde coperte rosa chiaro.

 

- II -
Maira si svegliò, seccata. Il sonno si era fatto agitato e avvertiva come un peso, localizzato all’altezza del torace. La mano sinistra era tutta un formicolio; si mise seduta e provò a stirarla ma ciò le provocava dolore. Senza chiedersi il perchè di tali sintomi riappoggiò la testa sul cuscino e rimase a fissare il soffitto bianco. Non riusciva a pensare lucidamente, forse a causa del sonno che stava tornando ad assalirla, e ogni volta che afferrava un filo di pensieri esso sfuggiva e andava a perdersi tra le nebbie del torpore incombente. Da fuori, occasionalmente, giungeva il lontano rombare di qualche auto. Si girò e rigirò nel tentativo di scacciare lo strano turbamento e la sensazione opprimente che l’aveva assalita. Nemmeno il pensiero di Bibin, il suo piccolo micino grigio e paffuto che dormiva in cucina, nella sua scatoletta, l’aiutò a quietarsi.

Tenne la luce accesa per parecchi minuti, forse dieci, e agitò un poco la mano; era tutto a posto. Poi si toccò il petto e per un attimo ricordò la sensazione provata poco prima, l’impressione chiara di due pugni, o qualcosa di simile, premuti all’altezza del cuore. Gli erano parsi piccoli e gelidi.

 

Rimase ferma, coricata su un lato, le ginocchia strette al petto, per un po’ e poi si distese. Piano, adagio, aveva paura che da un momento all’altro potesse stare nuovamente male. Non successe niente. Sospirò e si riaddormentò, sentendosi ridicola nel lasciare la luce accesa.

 

- III -
Il sonno s’interruppe ancora a causa di un rumore continuo, colpi secchi ma precisi. Assonnata, Maira scrutò la stanza ma la sonnolenza ora annebbiava non poco i suoi sensi impedendole di concentrarsi. Devo aver sognato, pensò. In effetti, il martellamento era cessato di colpo eppure nel momento in cui Maira posò la testa sul cuscino esso riprese, con più veemenza. La ragazza si voltò spaventata verso la finestra; attraverso le tende gialle e verdi non riusciva a vedere niente ed aveva paura di uscire dalle coperte. I colpi si interruppero di nuovo e regnò solo il silenzio. Siamo al secondo piano, pensò, è impossibile che ci sia qualcuno! Sarà stato qualche animale, un gatto forse, o un uccello. Il silenzio e la calma notturna fece tranquillizzare Maira che tirò un sospiro di sollievo; accennò un sorriso pensando alle sue paure da bambina, scosse la testa e lentamente si coricò. Questa volta spense la luce e per infondersi coraggio ricordò le note di una delle sue canzoni preferite, “Bard’s Song”, dei Blind Guardian.

 

Il silenzio imperava sia nella camera che all’esterno e il tepore delle coperte aveva ricondotto Maira nel mondo dei sogni. La pace era tuttavia solo passeggera; ben presto, infatti, venne ridestata da fruscii incessanti che a lei parevano localizzati ai piedi del letto. Cercò di non pensarci, doveva non pensarci, anche perchè sentì nuovamente crescere in lei il timore e l’ansia. La stanza non era del tutto buia, i lampioni fuori rimandavano una luminosità debole che riusciva però a rischiarare in parte gli oggetti posti immediatamente nelle vicinanze della finestra. Maira riprese a fissare l’oscurità davanti a lei; non vedeva niente. Allungò la mano per cercare l’interruttore della lampada e quando lo trovò pigiò il tasto. La luce non si accese. Il panico l’investì d’improvviso quando il braccio e la mano presero a formicolare, intensamente. Come per uno strano copione udì nuovamente bussare alla finestra ed il torpore parve aumentare fino a provocarle la paralisi del braccio sinistro. Con uno sforzo scrutò la finestra, oltre le tende, e osservò due sagome scure, innaturali, illuminate a stento dai lampioni; avevano lunghe e sottili braccia forse terminanti con quattro dita e un’altrettanto esile corpo su cui spiccava una testa ovoidale, grandissima e sproporzionata rispetto al resto. Il rumore ai piedi del letto cessò e nel contempo le tende caddero inspiegabilmente dai loro ganci con un tonfo morbido. Maira fu presa dalla meraviglia, che giunse come un insperato sollievo: alla finestra non c’era nessuno. Un sogno? Aveva sognato ogni cosa?

 

Un lampione cominciò a sfarfallare irregolarmente.
No, non posso aver sognato, disse fra sé. Aveva ancora il braccio paralizzato, lo fissò e cercò di muoverlo. Per quanti sforzi facesse, e con crescente preoccupazione, il braccio non si mosse.

 

L’agonia del lampione ebbe fine ed esso si spense lasciando completamente al buio la stanza di Maira. La ragazza si strinse tra le coperte, impaurita all’estremo. Voleva piangere e urlare, ma nulla le usciva dalla gola. Lacrime calde scivolarono sul suo viso affannato e arrossato, il cuore le batteva fortissimo e faceva guizzare i suoi occhi verdi in ogni direzione cercando di afferrare ogni minino movimento o cambiamento sospetto. Con un sussulto il lampione riprese a vivere e la stanza fu ancora invasa dalla debole luminescenza azzurrina. Maira riprese il controllo delle sue inquiete membra, scese dal letto e si avvicinò alla finestra, dimenticandosi completamente del formicolio al braccio. Avanzò a piccoli passi verso la finestra, tremante. Giunta nei pressi si chinò a raccogliere la tenda caduta e si accorse che il brulichio del braccio era cessato. Sorpresa, ma sempre attenta, vide che oltre la finestra e sulla strada sottostante non c’era nessuno. Gli alberi si agitavano piano sotto l’alito della brezza notturna e ogni cosa appariva immobile, perfettamente normale. Meccanicamente rimise la tenda al suo posto senza staccare gli occhi dalla finestra, e tornò a letto. Non si coricò subito, rimase pensierosa e analizzò tutti i particolari di ciò che era accaduto, giungendo alla conclusione, che le lasciava comunque dubbi e paure, di essere stata preda di un incubo incredibilmente reale. Si guardò il braccio: con tutta probabilità aveva dormito male, pressandolo o piegandolo in maniera, per così dire, innaturale. Sì, sì. E’ andata così, sono solo molto stanca per la giornata di oggi, spiegò a se stessa, probabilmente domani non ricorderò niente e riderò di ogni mio timore! Rincuorata si distese e si riaddormentò.

 

- IV -
Dopo alcune ore, Maira ebbe sete, una tremenda sete. Accesa la luce si avviò a passi veloci verso la cucina, al piano di sotto. Scese le scale di marmo bianco tenendosi al corrimano giacché non era ancora del tutto sveglia. Giunta in cucina aggrottò le ciglia, pensierosa e sospettosa; le pareva d’aver sentito un ronzio, debole. Successivamente, in capo a pochi secondi crebbe d’intensità, riuscendo quasi a disturbare i pensieri di Maira, la quale si tappò le orecchie. Ma era inutile. La sua prima reazione fu quella di correre nella camera dei genitori ma non ci riuscì. Il ronzio le era penetrato direttamente nel cervello e l’aveva quasi paralizzata. La luce si spense ed il cuore di Maira accelerò di colpo. Il ronzio si affievolì del tutto ma la paralisi non cessò. Fu allora che sentì di non essere sola; il buio le impediva di vedere ma ne era certa. Avvertì due presenze, due sguardi su di sé, a pochi metri di distanza. Qualcosa le sfiorò il viso e scese sul petto; due pugni minuti, un sensazione già provata, premettero sul cuore facendolo placare. Maira era comunque spaventata ma provò un terrore ancora maggiore quando capì che tutto ciò che stava accadendo non apparteneva ad un sogno o ad un incubo. Era la realtà.

 

Si sentì capovolgere come se fosse stata una tavola di legno, ed il ronzio, che prima era quasi del tutto scomparso, ridivenne gradualmente intenso ma meno penetrante. L’ambiente intorno divenne caldo. Maira cercò di urlare o almeno di muoversi, ma non ci riuscì, continuava a percepire nel buio le due presenze che si muovevano vicino a lei affaccendati in chissà quali operazioni.

 

Ma un rumore insperato, familiare, ruppe il ronzio; era un soffio, tipico dei gatti impauriti. Una sola figura apparve nella mente di Maira, quella del suo piccolo micino, e sorprendentemente riuscì ad urlare:
-“Bibiin!”.
Tutte le sensazioni spaventose provate fino a qual momento sparirono d’incanto, repentine, quando la luce tornò. Maira si trovò distesa sul pavimento con Bibin, che facendo le fusa si stava strusciando su di lei. Lo prese e pianse, stringendolo a sè. Il calore del suo piccolo corpicino fu un sollievo.
-“Oh, Bibin!” baciò la testolina pelosa.
La madre entrò in cucina, seguita dal padre:
-“Maira, tesoro, che è successo?”- disse chinandosi sulla figlia.
L’aiutarono ad alzarsi e la riportarono a letto. Maira non disse niente di ciò che aveva vissuto, nascose tutto dietro un “E’ stato solo un’ incubo”, e sebbene i genitori erano apparsi preoccupati decise di non aggiungere altro. Portò, però, Bibin con lei e si coricò insieme a lui. Il resto della notte passò veloce ed il sole, all’alba, scacciò definitivamente ogni paura.

Fabrizio Serra