Io sono il prossimo...

Chiudo gli occhi e immagino la scena:
I poliziotti sfondano la porta ed entrano. Indossano giubbotti antiproiettile, hanno pistole e torce elettriche. Quando mi vedono, rannicchiato nella gabbia, si avvicinano e mi dicono che è tutto finito. Uno di loro rompe il lucchetto con delle tronchesi speciali. Mi tirano fuori, mi mettono una coperta sulle spalle e mi portano dai paramedici che mi caricano sull’ambulanza e mi accompagnano in ospedale. E lì, finalmente, rivedo i miei genitori.
«Dormi?»
La voce del mio vicino mi riporta coi piedi per terra.
Mi giro verso di lui. Dalla fessura tra la porta e il pavimento filtra nel locale un alone di luce giallognola. Riesco a vedere metà del suo viso, il resto è cancellato dalle ombre.
«Secondo te lui verrà oggi?»
«Non lo so. Spero di no.»
«Tu hai tenuto il conto di quanti giorni sono che non viene?»
Ci penso. Due, devono essere due.
«Secondo me sono due» continua il mio vicino.
«Sì, anche secondo me.»
Lui si abbraccia le ginocchia rannicchiandosi ancora di più nello spazio angusto tra le sbarre. «Allora potrebbe venire.»
«È probabile.»
«Hai paura?»
«Che domande fai? Certo che ne ho.»
«Io spero che non prenda me.»
«Preferiresti che prendesse me?»
Non mi risponde, ma so a cosa pensa. Anch’io spero che prenda lui e non me, cosa crede?, non sono mica stupido. Un giorno in più vuol dire maggiori probabilità di uscirne vivo, maggiori probabilità che qualcuno si decida a venirmi a cercare in questo posto, dovunque sia. L’ultimo ricordo che ho prima di questo schifo è di me che percorro a piedi la strada per andare scuola, poi dev’essere successo qualcosa ma non ne ho memoria. Mi sono svegliato qui. Mi faceva un male terribile la testa e mi ero pisciato nei pantaloni.

Una goccia d’acqua si stacca dal soffitto e incontra una tubatura. Il rumore si spande nel locale come il rintocco di una pendola.
Sento il mio vicino che mormora qualcosa.
«Che stai facendo?»
«Sto pregando.»
«Smettila. Mi dai sui nervi.»
Il rumore di passi dall’altra parte della porta mi fa trasalire.
I passi si fanno più vicini e si fermano. La fessura sotto la porta viene oscurata dalla sua ombra. Lo sentiamo armeggiare col suo mazzo di chiavi. Infila quella giusta nella serratura e la gira.
La porta si apre cigolando.
La luce della lampada al neon che tiene in mano illumina il locale.
È vestito come l’ultima volta, quando ha portato via l’altro bambino, con una tuta da meccanico piena di macchie, guanti di pelle che gli arrivano fino ai gomiti e scarpe con la suola rinforzata. È alto, per passare attraverso la porta deve abbassare la testa. Ha il viso allungato, il labbro leporino, l’occhio destro semichiuso dalla palpebra cadente, come se una metà di lui fosse sul punto di addormentarsi da un momento all’altro. Ha pochi capelli di un biondo slavato.
Il mio vicino si mette a piagnucolare.
Lui si avvicina alle gabbie. Si abbassa e guarda dentro la mia.
Mi scruta con l’occhio buono. Cerco di tirarmi indietro, mi rannicchio in un angolo della gabbia. È così vicino che riesco a sentire il suo odore: puzza come un bagno guasto.
«Ti prego» lo supplica il mio vicino. «Non prendere me. Ti prometto che farò tutto quello che vuoi.»
Lui apre il lucchetto con una delle chiavi del suo mazzo, spalanca la gabbia, lo afferra per i capelli e lo trascina fuori ignorando le sue grida disperate. Continuo a sentirlo gridare anche dopo che lui è uscito e ha richiuso la porta a chiave. Continuo a sentirlo finché il verso della cosa dall’altra parte riempie lo scantinato.
Mi ricordo di ciò che mi disse un giorno il mio vicino: «Secondo te cos’è?»
«Non lo so. Somiglia a un grosso cane.»
«Non ho mai sentito un cane che fa quei versi.»

Il mio vicino urla di nuovo.
Chiudo gli occhi e mi copro orecchie con le mani finché non è tutto finito.

 

I poliziotti sfondano la porta ed entrano. Indossano giubbotti antiproiettile, hanno pistole e torce elettriche. Quando mi vedono, rannicchiato nella gabbia, si avvicinano e mi dicono che è tutto finito. Uno di loro rompe il lucchetto con delle tronchesi speciali. Mi tirano fuori, mi mettono una coperta sulle spalle e mi portano dai paramedici, che mi caricano sull’ambulanza e mi accompagnano in ospedale. E lì, finalmente, rivedo i miei genitori.

 

Continuo a tenere gli occhi chiusi, rimango aggrappato all’immagine dei miei genitori finché il rumore della chiave che gira nella serratura la manda in frantumi.
E capisco che non verrà nessuno.
Io sono il prossimo.

Oreste Patrone