L'ultimo

L'orologio si è esaurito, morto, come tutto il resto del paese. Passo giorno e notte sulla mia sedia a dondolo, all’ingresso, immerso nel buio più completo. Imbraccio sempre il mio fucile a doppia canna, nel caso dovessero entrare. Li sento camminare intorno alla mia casa, sul mio portico, fuori dalla porta. Cercano di guardare attraverso le assi inchiodate alle finestre, bussano alla porta, mugugnano qualcosa che potrebbe essere il mio nome. Mi cercano perché sono l’ultimo. Puntuale come al solito rintocca per le strade il suono di una campana, incastonata nella torre della magione sopra la collina, e tutti loro si fermano. E’ il loro Padrone, colui che li ha creati. E’ il modo che ha per richiamarli a sé. Posso sospirare, si allontanano. Osservo il cumulo di piatti accanto al lavandino, le provviste sono praticamente finite. Non so neanche più da quanti giorni sono rinchiuso qui dentro. Ho bisogno di dormire, devo stare all’erta tutte le ore perché vengono a cercarmi in continuazione, sperando di poter entrare. Non posso permetterglielo. Al mio fianco vi è appesa una pistola, con un singolo colpo. Per me. Nel caso mi prendessero. Non diventerò come loro.
Chiudo le palpebre per riposare gli occhi.
Incubi. Costanti. Non ho un sonno tranquillo da settimane. Li vedo, li sento, anche nei miei sogni.

Torno alla realtà sobbalzando, guardo lesto l’ora. Ah già, l’orologio è fermo. Mi avvicino a una finestra tendendo l’orecchio. Silenzio. Forse sono ancora alla collina. Un leggero capogiro mi colpisce, sono stato troppo seduto ed ho bisogno di mangiare. E’ il momento, potrei non avere un’altra occasione. Appoggio il fucile e prendo le chiavi della macchina per raggiungere il paese vicino.
Esco dal retro, dove ho parcheggiato, per essere sicuro che non mi vedano. Infilo le chiavi nel quadro, giro, ingrano la marcia e parto. Sembra andar bene ma dopo qualche decina di metri, all’improvviso, sento uno scoppio e una nube di fumo si sprigiona dal cofano. Agitato, provo a rimettere in moto. Niente. Non pensavo fossero capaci di manomettere un motore. Il rumore li ha attirati, stanno già arrivando. Salto giù e nella fretta inciampo, batto la testa, ma non ho tempo per il dolore. Scappo, scelgo una direzione a caso e la seguo. Troppo tardi, mi si parano davanti come un muro. Mi giro, cerco una via d’uscita. Troppo tardi, mi hanno circondato.
Mi preparo al peggio ma non si muovono, rimangono a fissarmi senza proferire verbo. Una parte di loro si apre e da dietro ecco che spunta lui. Il loro Padrone è arrivato. I suoi occhi di vetro mi puntano, brillando come fari nella notte. Alza la mano, fa uno strano segno e tutti loro si inginocchiano al suo volere. Dalla veste tira fuori il suo libro, quello con cui li ha dannati, e con voce cantilenante inizia a recitare le formule che vi sono scritte. La mano corre alla cinta ma non trovo la pistola, mi deve essere caduta. Con orrore noto che la sua ombra si deforma, si allunga, fino a raggiungere la mia. Esplode in un fiume di tentacoli che escono dal suolo e mi avvolgono, mi stringono, mi sollevano, mi soffocano. Entrano nel naso, nelle orecchie, nella bocca. Vuole il mio corpo, la mia mente, la mia anima. Cerco disperatamente di resistere ma il suo canto è rafforzato da quello di tutti gli altri servi. Devo cedere, ormai è finita. Sono troppo debole, troppo stanco e troppo solo per continuare a combattere. Sento la testa riempirsi sempre più delle sue parole, mentre abbandono la ragione e questo mondo che mi si è rivoltato contro rendendomi l’ultimo.

 

Sono già passati un paio di giorni. Ho riaperto la mia casa, tolto le tavole alle finestre. Ormai non ho più bisogno di nascondermi. Faccio parte di loro. Ho gettato via anche le armi, non ho più bisogno di difendermi da nessuno. Faccio parte di loro.
Mi ritrovo per strada, in fila insieme a tutti gli altri perché la campana ha iniziato a rintoccare. Ci sta chiamando e noi dobbiamo, vogliamo, obbedire. Salita la collina mi ritrovo nuovamente di fronte al suo rifugio. Non mi era mai sembrato così bello e imponente. L’enorme portone si apre e la massa di cui faccio parte si riversa al suo interno. Rimango un attimo in contemplazione, quando sento una mano che mi sfiora la spalla. E’ lui, è il Padrone.
“Tu che cosa fai, non entri?”
Lo guardo quasi per scusarmi, annuisco in silenzio e raggiungo gli altri. Con la coda dell’occhio noto che sorride, mentre si pulisce gli occhiali, soddisfatto per avermi aggiunto al suo gregge.
Dopo aver chiuso la porta, il prete si dirige all’altare per iniziare la Messa.

Davide Burzi