Human toys

L'unica sensazione che Mike stava provando mentre si svegliava erano dei tremendi crampi allo stomaco. I suoi occhi erano ancora chiusi. Poco per volta si rese conto di altre sensazioni: sentiva l’amaro sapore in bocca tipico di quando ci si è appena svegliati, gli faceva male una guancia, come se fosse appoggiato su di una grattugia.
Aveva anche una strana paura, sapeva di aver fatto un sogno che lo aveva scosso ma non ne ricordava i dettagli.
La sua testa era ancora nella penombra, ma il barlume di pensiero di quel sogno lo attanagliava come una morsa. Avrebbe voluto potersi svegliarsi completamente al solo click di un interruttore, o di un mouse...
Gesù! Il mouse, la tastiera, il monitor... era in ufficio! Come aveva potuto addormentarsi in ufficio?! Otto anni di lavoro come programmatore e non gli era mai successo. Ricordava il periodo del progetto “Eagle”, in cui tutto il suo team aveva lavorato per un mese dalle sette del mattino alle due di notte, sabati e domeniche incluse. Tanto caffè e un mare di nicotina, ma non si era mai addormentato sulla scrivania. Sì, adesso era decisamente sveglio. Questa scoperta lo aveva sconvolto: non sapeva darsi una risposta. Chiunque di fronte ad un problema del genere, peraltro non grave, cercava mille scuse: lo stress, un calo di zuccheri, l’inquinamento, qualsiasi cosa potesse alleviar loro la coscienza. A lui non venne in mente nulla: dindon! Seconda cosa anomala, lui era un maestro di scuse: da sei mesi rincasava tardi il martedì perché giocava a biliardo con i colleghi e per sei mesi aveva inventato scuse a dir poco geniali: lavori improvvisi, ospiti dal Giappone, ecc.
Sua moglie non sapeva nulla e nemmeno sospettava… moglie.. moglie… bionda... bruna… Mary… Mindy… Mandy! Sua moglie si chiamava Mandy!
Cercò di contare quanti secondi aveva impiegato per ricordarselo: due, due e mezzo, no tre, decisamente tre! Come è possibile che dopo tutti quegli anni di matrimonio… anni.. quanti anni?
Improvvisamente fu il terrore. Non si ricordava il nome di sua moglie, adesso neppure da quanto tempo era sposato. Perché? Gli vennero in mente le cose peggiori: lo stress, un calo di zuccheri, l’inquinamento, forse potevano causare anche amnesia?
Di colpo gli venne in mente il sogno che aveva fatto poco prima di svegliarsi.
Era nella sua casa al lago, una piccola casetta di legno nel Maine.
Suo padre gli aveva chiesto di prendere delle bottiglie in cantina, lui era sceso dalla scala, aveva attraversato la porticina e si era messo a cercare le bottiglie.
La parete era piena di bottiglie, ma tranne quattro o cinque le altre erano vuote. Impolverate, ben tappate, ma vuote. Ne prese una in mano e il fondo si illuminò. Preso dal terrore la lanciò a terra. La bottiglia esplose con un incredibile fragore, il fragore che lo aveva svegliato.
Si rese conto che tutti questi suoi pensieri erano avvenuti ad occhi chiusi. Era ora di riaprirli, anche se aveva un’insana paura di ciò che avrebbe potuto vedere. Troppe cose strane erano successe in quei due o tre minuti, cosa sarebbe successo aprendo gli occhi? Il mondo era ancora lì? Prese coraggio e lo fece: aprì gli occhi. Mai era stato così felice di vedere il suo monitor, la sua scrivania, i piccoli oggetti con cui ognuno addobba il proprio posto di lavoro.
Si alzò per guardare le mensole, i ripiani, le scartoffie, per toccare le puntine che tenevano alcuni fogli sulla piccola bacheca di sughero, quando tutt’a un tratto la forza gli mancò nelle gambe e ricadette a peso morto sulla sedia. Un portapenne di cartone dipinto su cui una mano malferma aveva scritto “Ti voglio bene papà!”, con due cuoricini rossi che sembravano occhi lo guardava. Papà? Lui era un papà?
Di colpo volle alzarsi, voleva parlare con qualcuno, lo avrebbero preso per matto ma almeno avrebbe avuto qualche scampolo di certezza. Si alzò così di scatto che ebbe un piccolo calo di pressione e la vista gli si annebbiò. Quando gli tornò ebbe un brivido: le sue ben poche certezze continuavano a sgretolarsi: il grande open-space in cui lavoravano i suoi quasi venticinque colleghi era vuoto.
La paura durò solo un istante, dopo il quale esplose in un riso nervoso e liberatorio. Aveva dormito, chissà che ora era, comunque era molto plausibile che l’ufficio fosse vuoto dopo l’orario di lavoro! Dopo qualche secondo si voltò, ancora ridendo, verso l’orologio a muro. Segnava le quindici a venti. Non pensò neanche che potesse essere fermo, la grande lancetta dei secondi batteva inarrestabile sotto i suoi occhi.
Era un tipo assai professionale, in quella situazione i suoi terrori venero spazzati dal pensiero del lavoro, forse c’era una riunione, un’assemblea dei dipendenti e lui addormentato la stava perdendo. Era infuriato con i suoi colleghi che non l’avevano avvertito. Si mise a correre lungo il corridoio fino al pianerottolo degli ascensori. Premette il pulsante e, con un gesto istintivo che faceva tutte le sere prima di uscire guardò fuori dalla grande finestra del pianerottolo.
Dall’altra parte della strada c’era la Scott Tower, un grattacielo di oltre settanta piani. Da quella finestra si vedevano una dozzina di piani per una quindicina di uffici in orizzontale.
Quando usciva tardi la sera si divertiva a contare le luci ancora accese, scommettendo dopo un rapido sguardo se fosse un numero pari oppure dispari.
Ciò che vide quella volta fu solo cielo, sentì un colpo venire dal suo petto e svenne.

 

***

 

Impossibile dire per quanto tempo rimase incosciente. Quando si risvegliò il ricordo delle pene patite ad occhi chiusi la volta precedente lo fecero drizzare in piedi con uno scatto felino. Aprì immediatamente gli occhi, guardò la porta chiusa dell’ascensore e rimase a pensare.
“Un allucinazione, non c’è altra spiegazione! Per una impossibile ragione ho avuto un’amnesia e delle allucinazioni!”
Respirò profondamente e senza esitazione pensò alla sua famiglia: la sua splendida biondissima moglie Mandy lo stava sicuramente aspettando a casa, dove appena entrato la piccola Casey lo avrebbe abbracciato lasciando cadere la bambola che aveva in mano.
Vide mentalmente la scena a provò una gioia incontenibile. Scoppiò in un’altra risata liberatoria. Non era pazzo! Non aveva perso la memoria! Probabilmente sarebbe andato dal medico a raccontare questa storia, ma la sua vita c’era ancora, non l’aveva persa sotterrata nella mente.
Il suo riso si stava spegnendo, quando pensò alla Scott Tower e si girò verso la finestra. Il cielo era lì ad aspettarlo.
Cominciò a sudare, a respirare affannosamente, i tre passi per raggiungere la finestra gli sembrarono un milione di scalini.
Appoggiò i palmi delle mani al vetro e guardò giù. Il palazzo della azienda in cui era così fiero di lavorare si trovava circondato da un immenso oceano.
Corse verso la finestra nel lato opposto. Stesso stupendo (in un’altra vita) panorama.
Difficile descrivere cosa passò per la sua mente. Il suo cervello sembrava un’auto impazzita, che si dirigeva verso le direzioni più disparate senza un senso. La sua mente, così razionale e precisa stava vagando alla deriva.
Come un automa si diresse verso l’ascensore e premette il pulsante.
La porta si aprì, entrò e scese al piano terra. Attraversò l’atrio deserto, uscì dall’ingresso e sentì una strana consistenza sotto le scarpe. Il marciapiede dove solitamente si affollavano passanti, da dove si sentiva il rumore di auto, taxi, autobus, clacson, sirene, grida non c’era più. Al suo posto solo una striscia di una decina di metri di sabbia tutt’intorno all’edificio. L’unico suono che giungeva alle sue orecchie, delle quali peraltro non si fidava più, era lo scroscio delle onde sulla riva. Un suono che tante volte lo aveva cullato nei momenti romantici con Mandy e che ora sembrava il cigolio della porta dell’inferno. Si lasciò cadere sulla spiaggia e svenne di nuovo.

 

***

 

“Mark! Sbrigati! La cena è pronta!”.
“Arrivo mamma!”.
Mark stette qualche secondo a pensare a cosa fare, spegnere il personal e ricominciare dopo o lasciarlo acceso. Stava per premere l’interruttore quando suonò il telefono.
“Mark sei tu ?”.
“Ciao Freddie! Stavo per chiamarti poco fa ma... accidenti, non riuscivo proprio a staccarmi dal PC, dopo aver disegnato il palazzo ho attivato la nuova funzione e… cazzo, grandioso!”.
“Che tipo di profilo simulato hai inserito?”.
“Un impiegato, era tra i default dell’edificio.”
“Solo un elemento pseudo-vivente?”
“Sì, solo uno.”
“Cazzo, io ne ho sempre messi almeno tre, ma tu sei veramente un bastardo!”
“Che ti frega, sono macchine!”
“E come è andata?”
“Mah, non lo so, ha girato un po’ per l’edificio, si affacciato alle finestre, penso di non aver ancora scoperto alcune funzioni!”
“Premi Alt R e Alt T, ti si attivano i pannelli con i suoi pensieri e la sua situazione psichica, quando la barra in alto diventa rossa sta per dar fuori!”
“Se l’avessi attivata penso che avrebbe preso fuoco!”
Dal corridoio: “Mark! Allora ti muovi!”
“Ciao Freddie! Devo scappare, ci vediamo più tardi in palestra!”
“Portami il tuo elemento su un floppy, voglio trasferirlo nel mio villaggio paleolitico.”

 

***

 

Quella sera i genitori di Mark stettero un po’ a chiacchierare nel letto prima di addormentarsi.
Il padre sembrava perplesso.
“Cara, ma credi che sia veramente educativo quel nuovo videogame?”
“Non saprei, certo che mette i bambini a contatto con delle persone sempre diverse senza i pericoli di ogni giorno. Anche se sono simulate mi sembra un qualche genere di esperienza!”
“Sarà ma la cosa mi inquieta abbastanza. Voglio dire, fino a che punto sono macchine o da che punto diventano persone. Nascono, muoiono, pensano, soffrono, che differenza c’è tra noi e loro? Come possiamo determinare che non siano vive, mentre noi sì?”
“Uffa, quanti problemi ti fai stasera, non ci pensare! Sono dei programmi, quando spegni il computer buonanotte!”

 

***

 

Quando Mark riaccese il monitor impiegò una ventina di minuti per ritrovare l’elemento.
Alla fine lo ritrovò. Era nel suo ufficio, solo, impiccato con la cravatta al portante delle luci al neon. Le sue guance erano piene di lacrime.

Alessandro Martellotta