Il buon mestiere

La verità, signor procuratore, è che i vivi non mi sono mai piaciuti. Troppo presi dalle loro bassezze, dalle loro meschinità. E poi neanche io piaccio a loro. I miei compaesani mi hanno sempre considerato un vecchio misantropo un po' sciroccato.
Naturale, in fondo: i becchini non sono molto popolari. Eppure è un buon mestiere. Un mestiere dignitoso, avrebbe detto mio padre. Anche lui era un becchino. E anche suo padre, e il padre di suo padre.
Non creda però che io abbia rinunciato ai miei sogni per portare avanti la tradizione di famiglia. Tutt'altro: io provavo autentica gioia nell'occuparmi dei morti. Passavo ore e ore ad ammirarli nella camera ardente. In fondo, so di essere un privilegiato. A me, solo a me, era concesso l'immenso onore di accompagnare i defunti nel loro ultimo viaggio.
Anche lei mi ritiene pazzo, vero? No, non serve che neghi, glielo leggo in faccia.

Ma non importa. Mi basta sapere di aver fatto la cosa giusta.
Sa, era un gelido pomeriggio di novembre, quando ho avuto l'illuminazione.
Stavo scavando una fossa, il fiato che mi usciva a sbuffi dalla bocca, e ricordo di aver pensato che i vivi in fondo non sono altro che morti imperfetti. Subito dopo, ho capito che toccava a me aiutarli a raggiungere la perfezione.
Così mi sono messo all'opera. Il primo è stato Franco, l'ubriacone del paese. La morte l'ha preso alle spalle, dolce come una carezza. Per lui ho organizzato un funerale da re.
Poi è stata la volta delle gemelle Petrantonio. In vita erano due bambine di otto anni come tante altre, ma da morte - perdoni la mia vanità di artista, signor procuratore - erano bellissime. Bellissime!
Il resto lo sapete, signor procuratore. Ho continuato ad aiutare i miei compaesani finché non mi avete arrestato. Rimpianti? Nessuno.
Spero soltanto che il prossimo guardiano del cimitero abbia la mia stessa dedizione al lavoro.

Matteo Bigarella