Autunno

Era sabato pomeriggio. L’estate era ormai terminata e le piogge inarrestabili annunciavano che anche per quell’anno si sarebbe passati direttamente dal caldo torrido al gelo dell’inverno, senza nemmeno sfiorare lontanamente il mite autunno.
“Ah, ai miei tempi”, stava dicendo il vecchio Pepe seduto ad un tavolo del bar Magnolia, chiamato così per l’evidente grosso albero omonimo che torreggiava all’ingresso, “questo era periodo di foglie colorate, profumo di bosco, aria ancora tiepida... adesso invece...” e allargò le braccia in segno di sconfitta. Poi si rivolse al bambino che gli stava seduto a fianco. “Finisci la tua cioccolata Cristian, che se arriviamo tardi tua madre chi la sente.” Il ragazzino vuotò la tazza in un lampo e sorrise al nonno sfoggiando i finti baffi che la bevanda gli aveva lasciato sul labbro superiore.
“Metti tutto sul conto Gaia,” disse Pepe alla donna robusta che gli sorrideva da dietro il bancone. “Che ci pensi mio figlio a saldare i debiti. Tanto i soldi li prende anche dalla mia pensione.”

Quando nonno e nipote uscirono dal bar, un uomo bruno con gli occhiali li avvicinò timidamente. “Ehm... scusate... il bambino ha dimenticato questo”, e mostrò loro un cappellino da baseball rosso. “Sta più attento Cristian”, lo rimproverò bonariamente il vecchio prendendo il cappello dalle mani dell’uomo. Il ragazzino si accigliò. “Ma non è mio, nonno... cioè, sì è mio ma...”. Pepe si stava irritando; la pioggia cadeva copiosa e l’ombrello non bastava a proteggerlo dall’umidità che gli penetrava nelle ossa. “E’ tuo o non è tuo Cristian?!”, domandò al nipote alzando un po’ troppo il tono della voce. Il ragazzino si arrese e capì che non era il caso di far polemiche. “Sì, è mio” mormorò titubante. Il nonno riprese la sua aria gioviale. “Bene, allora ringrazia il signore che te l’ha portato”. “Grazie”, disse Cristian, ancora poco convinto, in direzione dell’uomo che stava rientrando nel bar, e si mise il berretto in testa.
Per tornare a casa Pepe e il nipote dovevano attraversare il boschetto di betulle che però, in quella stagione, diventava davvero inospitale: un pantano di terra bagnata e foglie mollicce che si attaccano alle suole. “Passiamo per la strada come all’andata?”, chiese Cristian, sperando che il nonno gli permettesse invece di sguazzare nel fango, cosa che lo entusiasmava. “No, le macchine ci inzupperebbero tutti. Hai visto prima? C’è mancato poco. Alla velocità che vanno quei disgraziati... ci vogliono fare il bagno! Tanto è solo un pezzettino. Lasceremo le scarpe davanti alla porta, così tua madre non avrà da sbraitare.”
Le gocce di pioggia rimbalzavano sui due ombrelli e scivolavano nel terreno acquoso. Nonno e nipote procedevano lentamente, il vecchio intento a sporcarsi e bagnarsi il meno possibile e il bambino a mettere i piedi nel maggior numero di pozze d’acqua.
Da dietro un albero apparve la figura di un uomo che li fissava sorridendo. “Oh, riecco il nostro amico”, esclamò Pepe un po’ stupito, riconoscendo il tizio con gli occhiali del bar Magnolia. “Strano che sia qui...”. Mentre l’uomo si avvicinava, Cristian tirò la manica della giacca del nonno. “Sai nonno, non mi piace quel tipo. Ha una faccia strana... e poi io il cappello non ce l’avevo oggi, l’ho dimenticato ieri a scuola.” Prima che il vecchio Pepe potesse replicare, la lama di un coltello gli squarciò la gola. L’uomo con gli occhiali sorrideva e allungava il passo, il coltello intriso di sangue in pugno. Cristian, con le lacrime agli occhi e una gran voglia di urlare, correva a perdifiato verso la strada.

Monya Toscano