Un mondo alieno

Aveva nostalgia di casa: Akra sapeva come riempire le notti infuocate del loro posto, sapeva come fargli dimenticare d'essere solo un povero diavolo.
Non aveva potuto rifiutare la missione che Gartok gli aveva affidato, perché era in gioco la sopravvivenza di tutti loro. Si era stupito, semmai, di essere stato scelto, poiché c'erano altri suoi simili con maggiore esperienza e audacia inenarrabile. Ma in lui c'era una tenacia che, alle volte, si poteva scambiare per stupidità. Egli vedeva l'obiettivo e vi puntava diritto, a testa bassa.
La missione per cui era stato spedito laggiù era proibitiva, avrebbe dovuto convincere un alieno a fare qualcosa in cui non credeva e che lo ripugnava. Forse le sue tecniche di persuasione non sarebbero state sufficienti.
Ma forse la verità era che aveva paura. Quel mondo era orribile, con quei gas velenosi, quei rumori assordanti, allucinanti visioni che si succedevano su rettangoli lucenti, sguardi gelidi fra esseri che dicevano di amarsi, una sfrenata corsa verso il soppiantamento di ogni sensazione, esperimenti genetici che davano origine a mostri, e poi quel progetto folle, quella pistola puntata alla tempia.

Rogroth si passò nervosamente un artiglio su un corno, poi distese le ali membranose in un tentativo di apparire terrificante. Gli occhi verdastri spaziarono sulla città di Washington, gelidi ed impermeabile al terrore che vi si nascondeva dietro: il demonio di quarta classe desiderava tornare alla sua magione nel più breve tempo possibile.
Gli esseri umani lo terrorizzavano: votati all'autodistruzione per natura (e questo gli andava anche bene), ora si erano messi in testa di lanciare una testata nucleare contro l'Inferno, per scalzare dal trono il Principe delle Tenebre. Non si accontentavano più dei patti firmati col sangue, volevano gestire tutto il potere.
Rogroth si levò in volo: doveva convincere il presidente degli Stati Uniti a suicidarsi, al più presto. Il suo mondo, con tutte le sue meraviglie, era in serio pericolo.

Michele Spadaro