Reclami

Il signor Rosario Esposito era un impresario di pompe funebri, e la città nella quale esercitava la sua nobile professione era Napoli.
Sposato con Carmela, Rosario aveva due figli maschi, rispettivamente di cinque e sette anni, e tutti insieme abitavano nell'appartamento situato sopra all'impresa.
Poiché il quartiere dove vivevano non era propriamente dei più tranquilli (Napoli, lo sappiamo bene, è una città con un alto tasso di criminalità), il signor Esposito aveva da poco acquistato una pistola calibro 45, che teneva nascosta in un cassetto del suo ufficio al pian terreno; non che possedesse degli oggetti per cui valeva la pena di avere una pistola (a parte una ventina di casse da morto mezze tarlate e qualche soprammobile di dubbio gusto sparso per il suo appartamento), ma questo gli sbandati non potevano saperlo, per qui la prudenza non era mai troppa.

 

Fu la notte tra il mercoledì e il giovedì di un mese qualsiasi, che il signor Esposito fu svegliato di soprassalto dallo squillo del campanello.
<Mm… Rosario, hai sentito?>, bisbigliò Carmela.
<Sì!>, rispose Esposito mezzo intontito, <Adesso mi alzo>.
<Fammi sapere se te ne devi andare>, gli intimò quest'ultima, con la voce ancora impastata dal sonno.
Rosario scivolò fuori del letto e infilò i piedi nelle ciabatte; sua moglie stava già russando.
Ricevere visite a quell'ora tarda faceva parte del suo lavoro e accadeva piuttosto di frequente; spesso si trattava dei parenti di qualcuno deceduto improvvisamente durante la notte, altre volte, invece, era una volante della stradale, che veniva a richiedere i suoi servigi per recuperare qualche vittima della strada i cui pezzi erano sparpagliati per diversi metri sull'asfalto.
Il signor Esposito scese le scale molto lentamente, poiché i suoi occhi non si erano ancora abituati alla luce e non voleva correre il rischio di inciampare, e contemporaneamente si legò la cintura della vestaglia da notte.

Chiunque avesse premuto il campanello, nonostante fossero già trascorsi un paio di minuti, non aveva suonato una seconda volta, e se ne stava pazientemente ad aspettare.
<Chi è?>, chiese Rosario una volta raggiunto il citofono, tendendo l'orecchio nell'attesa di una risposta.
<Sono il signor Salemme. Avrei bisogno di parlare con lei, se non le dispiace>.
<Dispiacermi? E perché mai?>, si chiese Esposito, e aprì la porta facendo entrare lo sconosciuto.
In realtà, l'individuo che gli si parò di fronte era alquanto inquietante.
Era chiaro, innanzi tutto, che questo signor Salemme non sembrava intenzionato a rivelare molto del proprio aspetto; il suo abbigliamento, costituito da un ampio cappotto scuro che gli arrivava fino alle caviglie, una sciarpa di lana che gli copriva anche il naso e la bocca, un paio di guanti in tinta con la sciarpa e un cappello a tesa larga dal quale fuoriusciva qualche ciuffo di capelli di un colore indefinito, lasciava infatti parecchio spazio all'immaginazione. A completare lo strano quadretto, infine, un paio d'occhiali da sole con le lenti a specchio, di quelli che andavano di moda tra i ragazzini, una decina d'anni fa, e che non s'intonavano per niente con tutto il resto. Ad ogni modo, ciò che a Rosario risultò strano, non erano gli occhiali da sole in sé, ma il fatto che quella non era l'ora più adatta per farne uso, poiché era notte fonda e fuori c'era buio pesto.
<Prego, da questa parte>, esordì Esposito dopo qualche attimo d'esitazione, indicando con la mano la direzione per l'ufficio, poi continuò <desidera togliersi qualche indumento?>.
<No, grazie, non ancora!>, rispose Salemme. La sua voce era strana, come se stesse parlando in falsetto. Rosario non si sentiva per niente tranquillo; istintivamente si trovò a pensare alla pistola nel cassetto della scrivania.
<Allora, mi dica, in cosa posso esserle utile?>.
Tutti e due erano adesso seduti nelle comode poltrone in finta pelle dell'ufficio di Rosario; a separarli c'era solo un piccolo tavolo di legno scuro in cui erano sparpagliati numerosi fogli dattiloscritti e alcune penne di tipo economico.
<Il mio nome non le ricorda proprio nulla?>, domandò Salemme.
<Mm… no! Non saprei. Dovrebbe?>.
<Io credo di sì!>.
<Senta>, ribattè Rosario, <non credo che lei mi abbia svegliato nel cuore della notte per sottopormi ai suoi indovinelli. Vuole essere così gentile da dirmi che cosa desidera?>.
<Va bene, certo!>, e così dicendo Salemme si tolse sciarpa ed occhiali da sole, mostrando finalmente il suo volto.
Esposito trasalì.
Quella che aveva di fronte era la faccia di un cadavere in avanzato stato di decomposizione. Le labbra e il naso erano quasi totalmente scomparsi, e lasciavano intravedere le ossa del cranio, tutta la dentatura e le gengive divenute ormai nere.
La carne delle guance si stava staccando a brandelli (alcuni scivolarono sulla poltrona e poi per terra), e dove una volta c'erano stati gli occhi adesso troneggiavano due orbite orribilmente vuote.
<Si ricorda di me, signor Esposito?>, il ghigno si distorse fino a simulare un agghiacciante sorriso.
<N-non è possibile!>, balbettò Rosario, che per poco non cadde dalla poltrona, <Lei è… è…>.
<Sono il signor Salvatore Salemme>, spiegò compiaciuto il cadavere deambulante, <Vedo con piacere che mi ha riconosciuto, nonostante siano passati ormai sei mesi da quando sono morto!>.
Rosario fece uno scatto e cercò di raggiungere la porta dell'ufficio per scappare e chiedere aiuto, ma il mostro, nonostante ad ogni movimento perdesse qualche pezzo, era ancora molto agile e forte, e lo bloccò afferrandolo per il collo.
<Tu non vai da nessuna parte>, farfugliò in un tono che avrebbe dovuto rappresentare una minaccia, <altrimenti uccido te e la tua famiglia all'istante>.
Ad Esposito, più che le parole, lo spaventava il tanfo nauseabondo che proveniva dalle viscere della creatura infernale, dalla quale cercava di discostarsi il più possibile.
Finalmente Salemme mollò la presa e Rosario cadde a terra semisvenuto.
<Ora ascoltami, brutto bastardo, se sono qui non è certo per farti una visita di cortesia; il motivo che mi ha spinto ad uscire da quella tomba merdosa in cui mi avevi seppellito è un altro>.
Esposito fissava il cadavere con un misto di terrore e disgusto.
<Sono qui>, Salemme continuò <per sporgere un reclamo su quella fottuta bara del cazzo che hai venduto a mia moglie quando sono morto>.
<Eh? Cosa intendi dire?>.
<Lasciami parlare, razza di truffatore che non sei altro. Innanzi tutto quella bara non era in mogano, come le hai fatto credere, ma in larice, che è un legno più economico. Poi c'è il discorso dell'imbottitura, hai mai provato a distenderti su una delle tue fottutissime imbottiture? Immagino di no! Cazzo, dopo qualche giorno avevo la schiena a pezzi>.
Rosario non sapeva più cosa pensare; forse era il caso di non fare arrabbiare ulteriormente quel cliente insoddisfatto, e così tornò lentamente a sedersi sulla poltrona del suo studio.
<Quello che in ogni modo mi ha fatto incazzare veramente>, tuonò Salemme, <è che avevi garantito quella bara contro le infiltrazioni dell'acqua, e invece, dopo il primo acquazzone, ero già baciato fradicio come una spugna, con le conseguenze che puoi immaginare per i miei poveri reumatismi!>.
<Ma insomma, che cosa vuoi da me?>, trovò finalmente il coraggio di urlare Rosario.
<Cosa voglio da te? Voglio semplicemente ammazzarti affinché tu possa personalmente provare come si sta dentro una delle tue bare!>.
<Cosa?! Ma tu sei pazzo! Non ammazzerai proprio nessuno!>.
Rosario aprì il cassetto della scrivania, impugnò la sua 45 e la puntò contro il signor Salemme.
<Muori, brutto figlio di puttana!>.
Premette il grilletto, ma dalla canna non partì nessun colpo.
Premette di nuovo altre due o tre volte, ma niente: la pistola non voleva saperne di sparare.
<A parte che sono già morto>, precisò Salemme, <credo che faresti bene a raccomandare la tua anima al demonio!>.
Esposito sentì l'odore della putrefazione che si avvicinava sempre di più, finché due mani consunte e vigorose l'afferrarono per il collo fino a spezzarglielo.

 

Il signor Pasquale Marciano era proprietario di un negozio che vendeva armi da fuoco, e la città nella quale esercitava la sua nobile professione era Napoli.
Fu il martedì sera di un mese qualsiasi, che mentre era nel retrobottega a sistemare della merce negli scaffali, qualcuno suonò il campanello.
Il negozio era già chiuso da circa una mezz'oretta, ma giacché Pasquale si trovava ancora lì, decise di vedere ugualmente di che si trattava.
<Chi è?>, chiese prima di aprire la porta.
<Avrei bisogno di parlare con lei>, rispose la voce dall'altra parte, <è una cosa importante. Mi scusi per l'orario, ma ho avuto un contrattempo!>.
<Mm, un ritardatario>, pensò Marciano, <va bene, aspetti che le apro!>
Lo sconosciuto entrò e Pasquale richiuse la grossa porta blindata dietro di lui.
<Prego signore, desidera darmi la sciarpa e il cappel…>.
<Sono il signor Esposito>, lo interruppe bruscamente lo sconosciuto, <e vengo a proposito della calibro 45 che mi ha venduto qualche mese fa. Avrei un reclamo da farle!>.
In breve, un odore di putrefazione arrivò alle narici di Pasquale.

Stefano Roveron